Non ha nessuna atmosfera magica come quella che porta il Natale. Nessuna retorica, nessuna sdolcinata nenia che si possa raccontare ai più piccoli. Anzi. Non è nemmeno sentita dai bambini questa festa religiosa che mi trafigge il cuore. La Pasqua è così. Arriva assieme alla primavera ma porta sempre il senso di un dolore. Chi lo sente cerca Dio. Chi lo sente conosce Dio, vuole Dio, capisce Dio. In tre giorni, dal “giovedì santo” alla domenica di Pasqua, è sempre passata davanti ai miei occhi – persino quelli del bambino che sono stato – il senso ed il significato del nostro stare al mondo. L’unico conforto era quell’incoscienza: l’esser stato un bambino da cui, come da ogni bambino, per fortuna, era sempre ben lontana la percezione della fragilità, della vita che può andar via da un momento all’altro, di una giustizia che offendiamo tante volte con la menzogna, il sopruso, la violenza, la rozzezza delle nostre azioni. Nulla di tutto questo riusciamo a percepire con nitidezza quando siamo bambini. Qualcuno mi dice che sono gli unici anni della vita umana durante i quali siamo felici e non lo sappiamo, siamo leggeri come può esserlo l’aria, come le nuvole bianche dentro un cielo tutto tinto d’azzurro. Poi passa, finisce quell’età senza che nemmeno te ne accorgi. Sembrava eterna l’età dell’innocenza e, invece, diventa brevissima. Sembrava inquieta e, invece, aveva ed ha tutta la leggerezza e l’immaginazione che i bambini sanno avere. Da bambino mi domandavo quale potesse essere la colpa da cui prende senso e significato il nostro “peccato originale”. Mi dicevo “di quali colpe ho colpa?” “E quale peccato ho commesso così da essere nel buio assieme agli altri?” Con il tempo ho capito che avevo le colpe della mia specie. Tutte le cose peggiori degli umani mi appartengono: il profilo dell’anima è uguale per tutti come può esserlo il profilo del corpo, il suo modo di esistere, i suoi organi vitali. Fummo fatti tutti allo stesso modo. Così uguali eppure così diversi per il mondo di dentro che abbiamo in “custodia”.
Adesso vivo l’età che vivono gli adulti, quella nella quale ti appare chiaro tutto e tutte le paure di cui la vita umana può soffrire. Diventi fragile, ti metti a sentire il dolore del mondo. Rievochi quel bambino rimasto in te. Ma vedi tutto più chiaro. E capisci che la Pasqua ha preso il suo vero significato: una metafora della vita umana per il cristiano che ha fede. Tre giorni nei quali il tradimento, la condanna ingiusta, il commiato, il dolore, il destino, la passione, il lutto, lo smarrimento, la notte, la resurrezione e la luce sono tutte lì. Una dietro l’altra. Una assieme all’altra. Non avrebbe senso la vita umana per il cristiano se non ci fosse la Pasqua. Lì, muta e profonda a ricordarmi di tutti gli amici, le loro storie, i volti cari che sono andati via, risucchiati dallo stesso mistero nel quale è stato costretto a sprofondare Dio quando è venuto tra noi: il Dio che si fece uomo, che nacque in una stalla, che fu bambino, che divenne adulto e divise la storia in un “prima” e in un “dopo”. Sento ancora il dolore della passione di Cristo. Sento il dolore per le dipartite di chi, anche in giovane età, è stato costretto ad andar via. Sembrava immortale e invece! E, invece, se ci fosse una strada per alleviare il dolore del mondo, per estirpare da esso ogni morte. O, persino, per sanare il corpo e l’anima da ogni malattia che pervade o consuma il corpo e l’anima io la cercherei per salvare il mondo nel quale ho messo piede.
La sento tutta la fragilità della mia specie. A questa età la sento tutta. Sento lo smarrimento di chi non trova se stesso: non riesce a capire più ciò che era, ciò che sarà. Sento la sofferenza di chi soffrendo ha mutato il suo sguardo sul mondo, ha perso una parte di sé, una parte del mondo. Così cambiano le stagioni, le cose che vedi, le cose che senti. Questa Pasqua è un triduo di passione. Domenica un lampo di luce per chi crede in Dio aprirà i cuori della gente che resiste: per chi nasce, per chi vive. Ma sarà sempre un atto di fede. La vita degli umani, anche dopo quella luce, sarà fatta ancora e sempre di contrasti: la luce ed il buio, la notte ed il giorno, la vita e la morte. Ma attraversando questo buio sarà in una notte come questa che vorrò pregare come pregò un poeta a cui rimasi legato. Mario Luzi lo ascoltai, per la prima volta, quell’anno in cui aveva scritto a Dio. Disse, dico, in queste notti del triduo di Pasqua…
“Padre mio, mi sono affezionato alla terra quanto non avrei creduto. È bella e terribile la terra. Io ci sono nato quasi di nascosto, ci sono cresciuto e fatto adulto in un suo angolo quieto tra gente povera, amabile ed esecrabile. Mi sono affezionato alle sue strade, mi sono divenuti cari i poggi e gli uliveti, le vigne, perfino i deserti.
È solo una stazione per il figlio Tuo la terra ma ora mi addolora lasciarla e perfino questi uomini e le loro occupazioni, le loro case e i loro ricoveri mi dà pena doverli abbandonare. Il cuore umano è pieno di contraddizioni ma neppure un istante mi sono allontanato da te. Ti ho portato perfino dove sembrava che non fossi o avessi dimenticato di essere stato.
La vita sulla terra è dolorosa, ma è anche gioiosa: mi sovvengono i piccoli dell’uomo, gli alberi e gli animali. Mancano oggi qui su questo poggio che chiamano Calvario. Congedarmi mi dà angoscia più del giusto. Sono stato troppo uomo tra gli uomini o troppo poco? Il terrestre l’ho fatto troppo mio o l’ho rifuggito?
La nostalgia di te è stata continua e forte, tra non molto saremo ricongiunti nella sede eterna. Padre, non giudicarlo questo mio parlarti umano quasi delirante, accoglilo come un desiderio d’amore, non guardare alla sua insensatezza. Sono venuto sulla terra per fare la tua volontà eppure talvolta l’ho discussa. Sii indulgente con la mia debolezza, te ne prego. Quando saremo in cielo ricongiunti sarà stata una prova grande ed essa non si perde nella memoria dell’eternità. Ma da questo stato umano d’abiezione vengo ora a te, comprendimi, nella mia debolezza.
Mi afferrano, mi alzano alla croce piantata sulla collina, ahi, Padre, mi inchiodano le mani e i piedi. Qui termina veramente il cammino. Il debito dell’iniquità è pagato all’iniquità. Ma tu sai questo mistero. Tu solo”.
Tra poche ore sarà di nuovo luce. Un venerdì, un sabato, una domenica. Ad ognuno la sua metafora. Ad ognuno il suo calvario, il ricordo di qualcuno che non c’è più per ricordare che la morte ci insidia, ci colpisce, ci appartiene, porta via parti di noi, parti del mondo che abbiamo vissuto, che abbiamo dentro e minaccia noi stessi ogni giorno di più. Ma chi cerca la vita non può pensare alla morte. Non deve farlo se vuole “onorare” la Vita. La Pasqua è una metafora perfetta. Mette davanti a noi l’esperienza sempre attuale dei giusti che soffrono, che sono vessati, che sono nel disagio senza meritare nulla di quello che debbono patire per colpa e mano di ogni iniquità. Ma la Pasqua è cambio di passo, è consapevolezza, è lutto e dolore, è speranza e silenzio, è squarcio e resurrezione. Nessuno poté vedere o toccare con gli occhi degli umani il Cristo risorto e nemmeno dar conto davvero se quel Cristo ha vinto per sempre e davvero la morte con la resurrezione. Ma gli occhi della fede lo sanno ed è giusto che solo essi sappiano senza avere il suffragio di un minimo riscontro. Trovo giusto che nessuno di noi abbia la prova della resurrezione di Cristo. Sarebbe stato disumano averla: una condanna, una costrizione a fare del bene o a rifiutarlo dannandosi. Invece dovevamo essere liberi. Persino di non credere. La via della fede è un viaggio senza ritorno: ogni cosa è a suo posto anche quando sembra regni il disordine o il cupo grigiore, il buio, la morte che ci insidia, il corpo che soffre, e si ammala, ed invecchia. La Pasqua ci interroga, cerca il silenzio, scava dentro di noi, porta a compimento tutto quello che possiamo essere da quando si nasce a quando si muore per rinascere a vita nuova: risorgere dalle tenebre nelle quali ci mettemmo.
Buona Pasqua a te, ovunque tu sia. Chiunque tu sia!
francesco de rosa | anno domini 2018 | pasqua di risurrezione