Quel che resta del sogno di Martin Luther King, cinquant’anni dopo il suo assassinio

Che cosa resta, cinquant’anni dopo il suo assassino avvenuto il 4 aprile del 1968, del sogno e dell’impegno di Martin Luther King, il leader americano con la pelle dal colore scuro che fece della battaglia contro ogni razzismo e discriminazione una sua ragione di vita? In quali parti degli Stati Uniti d’America e di ogni altra nazione del globo la discriminazione, il razzismo, la xenofobia vive, dilaga, si diffonde, trova spazio ancora? Ciascuno saprà rispondere, sono sicuro, a queste poche ma necessarie domande. Un giorno, cinque anni prima che venisse assassinato, era il 28 agosto del 1963, a Washington Martin Luther King pronunciò un discorso che è rimasto nella storia per la sua”visione profetica, il suo slancio etico, la sua trama di idealità, la sua bellezza. Davanti a centinaia e centinai di persone il leader dallo sguardo mite e dall’impegno intenso disse:

“Sono felice di unirmi a voi in questa che passerà alla storia come la più grande dimostrazione per la libertà nella storia del nostro paese. Cento anni fa un grande americano, alla cui ombra ci leviamo oggi, firmò il Proclama sull’Emancipazione. Questo fondamentale decreto venne come un grande faro di speranza per milioni di schiavi neri che erano stati bruciati sul fuoco dell’avida ingiustizia. Venne come un’alba radiosa a porre termine alla lunga notte della cattività.
Ma cento anni dopo, il nero ancora non è libero; cento anni dopo, la vita del nero è ancora purtroppo paralizzata dai ceppi della segregazione e dalle catene della discriminazione; cento anni dopo, il nero ancora vive su un’isola di povertà solitaria in un vasto oceano di prosperità materiale; cento anni dopo; il nero langue ancora ai margini della società americana e si trova esiliato nella sua stessa terra.

Per questo siamo venuti qui, oggi, per rappresentare la nostra condizione vergognosa. In un certo senso siamo venuti alla capitale del paese per incassare un assegno. Quando gli architetti della repubblica scrissero le sublimi parole della Costituzione e la Dichiarazione d’Indipendenza, firmarono un “pagherò” del quale ogni americano sarebbe diventato erede. Questo “pagherò” permetteva che tutti gli uomini, si, i neri tanto quanto i bianchi, avrebbero goduto dei principi inalienabili della vita, della libertà e del perseguimento della felicità.

E’ ovvio, oggi, che l’America è venuta meno a questo “pagherò” per ciò che riguarda i suoi cittadini di colore. Invece di onorare questo suo sacro obbligo, l’America ha consegnato ai neri un assegno fasullo; un assegno che si trova compilato con la frase: “fondi insufficienti”. Noi ci rifiutiamo di credere che i fondi siano insufficienti nei grandi caveau delle opportunità offerte da questo paese. E quindi siamo venuti per incassare questo assegno, un assegno che ci darà, a presentazione, le ricchezze della libertà e della garanzia di giustizia.

Siamo anche venuti in questo santuario per ricordare all’America l’urgenza appassionata dell’adesso. Questo non è il momento in cui ci si possa permettere che le cose si raffreddino o che si trangugi il tranquillante del gradualismo. Questo è il momento di realizzare le promesse della democrazia; questo è il momento di levarsi dall’oscura e desolata valle della segregazione al sentiero radioso della giustizia; questo è il momento di elevare la nostra nazione dalle sabbie mobili dell’ingiustizia razziale alla solida roccia della fratellanza; questo è il tempo di rendere vera la giustizia per tutti i figli di Dio. Sarebbe la fine per questa nazione se non valutasse appieno l’urgenza del momento. Questa estate soffocante della legittima impazienza dei neri non finirà fino a quando non sarà stato raggiunto un tonificante autunno di libertà ed uguaglianza.

Il 1963 non è una fine, ma un inizio. E coloro che sperano che i neri abbiano bisogno di sfogare un poco le loro tensioni e poi se ne staranno appagati, avranno un rude risveglio, se il paese riprenderà a funzionare come se niente fosse successo.

Non ci sarà in America né riposo né tranquillità fino a quando ai neri non saranno concessi i loro diritti di cittadini. I turbini della rivolta continueranno a scuotere le fondamenta della nostra nazione fino a quando non sarà sorto il giorno luminoso della giustizia.

Ma c’è qualcosa che debbo dire alla mia gente che si trova qui sulla tiepida soglia che conduce al palazzo della giustizia. In questo nostro procedere verso la giusta meta non dobbiamo macchiarci di azioni ingiuste.

Cerchiamo di non soddisfare la nostra sete di libertà bevendo alla coppa dell’odio e del risentimento. Dovremo per sempre condurre la nostra lotta al piano alto della dignità e della disciplina. Non dovremo permettere che la nostra protesta creativa degeneri in violenza fisica. Dovremo continuamente elevarci alle maestose vette di chi risponde alla forza fisica con la forza dell’anima.

Questa meravigliosa nuova militanza che ha interessato la comunità nera non dovrà condurci a una mancanza di fiducia in tutta la comunità bianca, perché molti dei nostri fratelli bianchi, come prova la loro presenza qui oggi, sono giunti a capire che il loro destino è legato col nostro destino, e sono giunti a capire che la loro libertà è inestricabilmente legata alla nostra libertà. Questa offesa che ci accomuna, e che si è fatta tempesta per le mura fortificate dell’ingiustizia, dovrà essere combattuta da un esercito di due razze. Non possiamo camminare da soli.

E mentre avanziamo, dovremo impegnarci a marciare per sempre in avanti. Non possiamo tornare indietro. Ci sono quelli che chiedono a coloro che chiedono i diritti civili: “Quando vi riterrete soddisfatti?” Non saremo mai soddisfatti finché il nero sarà vittima degli indicibili orrori a cui viene sottoposto dalla polizia.

Non potremo mai essere soddisfatti finché i nostri corpi, stanchi per la fatica del viaggio, non potranno trovare alloggio nei motel sulle strade e negli alberghi delle città. Non potremo essere soddisfatti finché gli spostamenti sociali davvero permessi ai neri saranno da un ghetto piccolo a un ghetto più grande.

Non potremo mai essere soddisfatti finché i nostri figli saranno privati della loro dignità da cartelli che dicono:”Riservato ai bianchi”. Non potremo mai essere soddisfatti finché i neri del Mississippi non potranno votare e i neri di New York crederanno di non avere nulla per cui votare. No, non siamo ancora soddisfatti, e non lo saremo finché la giustizia non scorrerà come l’acqua e il diritto come un fiume possente.

Non ha dimenticato che alcuni di voi sono giunti qui dopo enormi prove e tribolazioni. Alcuni di voi sono venuti appena usciti dalle anguste celle di un carcere. Alcuni di voi sono venuti da zone in cui la domanda di libertà ci ha lasciato percossi dalle tempeste della persecuzione e intontiti dalle raffiche della brutalità della polizia. Siete voi i veterani della sofferenza creativa. Continuate ad operare con la certezza che la sofferenza immeritata è redentrice.

Ritornate nel Mississippi; ritornate in Alabama; ritornate nel South Carolina; ritornate in Georgia; ritornate in Louisiana; ritornate ai vostri quartieri e ai ghetti delle città del Nord, sapendo che in qualche modo questa situazione può cambiare, e cambierà. Non lasciamoci sprofondare nella valle della disperazione.

E perciò, amici miei, vi dico che, anche se dovrete affrontare le asperità di oggi e di domani, io ho un sogno. E’ un sogno profondamente radicato nel sogno americano, che un giorno questa nazione si leverà in piedi e vivrà fino in fondo il senso delle sue convinzioni: noi riteniamo ovvia questa verità, che tutti gli uomini sono creati uguali.

Io ho un sogno, che un giorno sulle rosse colline della Georgia i figli di coloro che un tempo furono schiavi e i figli di coloro che un tempo possedettero schiavi, sapranno sedere insieme al tavolo della fratellanza.

Io ho un sogno, che un giorno perfino lo stato del Mississippi, uno stato colmo dell’arroganza dell’ingiustizia, colmo dell’arroganza dell’oppressione, si trasformerà in un’oasi di libertà e giustizia.

Io ho un sogno, che i miei quattro figli piccoli vivranno un giorno in una nazione nella quale non saranno giudicati per il colore della loro pelle, ma per le qualità del loro carattere. Ho un sogno, oggi!.

Io ho un sogno, che un giorno ogni valle sarà esaltata, ogni collina e ogni montagna saranno umiliate, i luoghi scabri saranno fatti piani e i luoghi tortuosi raddrizzati e la gloria del Signore si mostrerà e tutti gli essere viventi, insieme, la vedranno. E’ questa la nostra speranza. Questa è la fede con la quale io mi avvio verso il Sud.

Con questa fede saremo in grado di strappare alla montagna della disperazione una pietra di speranza. Con questa fede saremo in grado di trasformare le stridenti discordie della nostra nazione in una bellissima sinfonia di fratellanza.

Con questa fede saremo in grado di lavorare insieme, di pregare insieme, di lottare insieme, di andare insieme in carcere, di difendere insieme la libertà, sapendo che un giorno saremo liberi. Quello sarà il giorno in cui tutti i figli di Dio sapranno cantare con significati nuovi: paese mio, di te, dolce terra di libertà, di te io canto; terra dove morirono i miei padri, terra orgoglio del pellegrino, da ogni pendice di montagna risuoni la libertà; e se l’America vuole essere una grande nazione possa questo accadere. Risuoni quindi la libertà dalle poderose montagne dello stato di New York. Risuoni la libertà negli alti Allegheny della Pennsylvania. Risuoni la libertà dalle Montagne Rocciose del Colorado, imbiancate di neve. Risuoni la libertà dai dolci pendii della California. Ma non soltanto. Risuoni la libertà dalla Stone Mountain della Georgia. Risuoni la libertà dalla Lookout Mountain del Tennessee. Risuoni la libertà da ogni monte e monticello del Mississippi. Da ogni pendice risuoni la libertà.

E quando lasciamo risuonare la libertà, quando le permettiamo di risuonare da ogni villaggio e da ogni borgo, da ogni stato e da ogni città, acceleriamo anche quel giorno in cui tutti i figli di Dio, neri e bianchi, ebrei e gentili, cattolici e protestanti, sapranno unire le mani e cantare con le parole del vecchio spiritual: “Liberi finalmente, liberi finalmente; grazie Dio Onnipotente, siamo liberi finalmente”.

 Su Martin Luther King, nato ad Atlanta il 15 gennaio del 1929, che fu pastore protestante e seppe animare come pochi la battaglia a favore dei diritti civili tanto da essere accostato, con giusta ragione a Gandhi, si sono dette molte cose. Il gesto folle ed omicida che il 4 aprile pose fine alla sua vita non è servito, per fortuna, a far calare l’oblio sul grande valore del suo impegno. Era fede, era impegno civile, era visione di un futuro senza disuguaglianze, era emozione e passione quella che ha animato, nel corso della sua vita, il pastore di Atlanta che riuscì a farsi ascoltare da Nixon, dai Kennedy, John e Robert, a cui lo avrebbe unito un destino beffardo. Dovette patite il carcere Martin Luther King, anni di sofferenze, il sospetto che qualcuno potesse fargli del male ad ogni passo. Ma in nessun momento della sua vita ebbe un dubbio sulla forza della fede che lo animò sempre. E l’America fece passi avanti, davvero, anche grazie al suo impegno, al suo esempio di vita.
 
 

Tra i tanti incontri che hanno segnato la vita di Martin Luther King, figura anche quello, nel 1964, con l’allora successore di Pietro Papa Paolo VI. Nel video le parole pronunciate proprio da Montini (audio pubblicato da Vatican News), tre giorni dopo il suo assassinio il 7 aprile 1968, durante l’omelia della domenica delle Palme: “Noi abbiamo ricevuto in Udienza, anni fa, questo predicatore cristiano della promozione umana e civile della sua gente negra in terra americana. Sapevamo dell’ardore della sua propaganda; ed anche Noi osammo allora raccomandargli che essa fosse senza violenza ed intesa a stabilire fratellanza e cooperazione fra le due stirpi, la bianca e la negra. Ed egli Ci assicurò che appunto il suo metodo di propaganda non faceva uso di mezzi violenti, e che il suo intento era quello di favorire relazioni pacifiche ed amichevoli tra i figli delle due razze. […] Possa l’esecrando delitto assumere valore di sacrificio; non odio, non vendetta, non nuovo abisso fra cittadini d’una stessa grande e nobile terra si faccia più profondo, ma un nuovo comune proposito di perdono, di pace, di riconciliazione nell’eguaglianza di liberi e giusti diritti s’imponga alle ingiuste discriminazioni e alle lotte presenti […] La Nostra speranza cresce altresì vedendo che da ogni parte responsabile e dal cuore del popolo sano cresce il desiderio e l’impegno di trarre dall’iniqua morte di Martin Luther King un effettivo superamento delle lotte razziali e di stabilire leggi e metodi di convivenza più conformi alla civiltà moderna e alla fratellanza cristiana. Piangendo, sperando, noi pregheremo affinché così sia”.

 

Sulle pagine di Repubblica, nell’ormai lontano 1991, ci si chiedeva, oltre la verità processuale emersa e le indagini svolte immediatamente dopo il suo assassinio e l’individuazione di un colpevole in James Earl Ray, chi davvero avrebbe tratto vantaggio dall’assassinio di Luther King, chi  avesse organizzato quell’omicidio e per quale motivo. Così ci si chiedeva anche quel giorno del lontano ’91: “Chi ha ucciso Martin Luther King? Dal carcere, ventitré anni dopo il delitto, James Earl Ray si rimangia tutto. Si proclama innocente e lancia una terribile accusa: il leader nero della non-violenza cadde vittima di un complotto dell’ Fbi allora diretta dal sinistro Edgar Hoover. Ray ha 63 anni, è in prigione a Nashville e cerca di ribaltare la verità ufficiale sull’uccisione di Martin Luther King in una autobiografia uscita in questi giorni. Il libro – ed è il risvolto più clamoroso – ha l’ imprimatur di Jesse Jackson, l’esponente di maggior spicco nella comunità afro-americana d’oggi. Il reverendo Jackson non si pronuncia nel merito specifico della difesa di Ray, condannato a 99 anni di reclusione per l’ assassinio. Non lo assolve, ma ne condivide le conclusioni: “Ho la forte impressione – scrive nella prefazione – che ci fu un complotto del governo per uccidere King. Non ho mai bevuto la teoria del pazzo isolato”. Martin Luther King fu ucciso sul ballatoio di uno squallido motel di Memphis il 4 aprile del 1968, in un’America lacerata dalla campagna per i diritti civili a favore della popolazione di colore. Era in compagnia di Jesse Jackson e altri collaboratori. L’assassino sparò da lontano alcune mortali fucilate e fuggì. Ray, che aveva una camera nello stesso motel, fu subito interrogato e confessò di aver sparato al leader negro per odio razziale. Una vendetta in proprio, senza complici. Tre giorni dopo il presunto assassino ritrattò, chiamò in causa un misterioso Raoul, ma alla fine accettò di dichiararsi colpevole per evitare la sedia elettrica. Nell’autobiografia Ray racconta che “con tattiche terroriste degne di un dittatore” l’ Fbi lo costrinse a confessare: lui al momento del delitto non era nemmeno nel motel, era in giro per Memphis con un amico di cui la polizia federale avrebbe comprato il silenzio, con dollari e minacce.”

Fin qui il racconto di un assassinio che, come per altri assassinii eccellenti dell’America di quel tempo (John e Robert Kennedy, per citarne solo alcuni), accanto ad un colpevole ufficiale sono passate altre e più inquietanti ipotesi. Resta, per Martin Luther King, il rimpianto di una vita spezzata nel pieno di un percorso che avrebbe potuto dare all’America di quegli anni conquiste di civiltà e di eguaglianza, un passo avanti deciso nel processo di un mondo che viveva giorni difficili.

Negli Stati Unit il “Martin Luther King Jr. Day” si celebra ogni terzo lunedì del mese di gennaio e venne istituito nel 1986, su proposta del presidente Reagan, per onorare la memoria di chi pure è stato definito “un gigante della non violenza”. Nel 1993 su sollecitazione fu però Bill Clinton a fare in modo che fossero tutti i 50 Stati americani a celebrare quella giornata. L’America che vive i 50 anni di distanza dall’assassinio di Luther King non è affatto quella nazione che il pastore protestante aveva desiderato e sognato. Ancora troppe tensioni, discriminazioni segnano la vita dei 50 Stati americani tanto che lo scorso gennaio, nell’anno del cinquantenario dall’assassinio di Luther King, anche il gesuita George Murry, vescovo di Youngstown, presidente della Commissione contro il razzismo istituita in seno alla Conferenza episcopale degli Stati Uniti si è voluto richiamare al pastore protestante esprimendosi, nel corso della conferenza stampa in questo modo: «Abbiamo troppa violenza nella nostra società e tutto ciò che diciamo comincia a sembrare banale e ripetitivo. Come società, dobbiamo tutti smettere di inventare scuse e impegnarci in un movimento per la nonviolenza che coinvolge tutti noi. Ma abbiamo bisogno di qualcosa di più, qualcosa di più profondo che porti ad una vera conversione. Una società è più di un insieme di persone che stipulano contratti, più di un gruppo di persone che ascoltano la stessa musica».  Sullo sfondo l’esempio e l’impegno del pastore protestante, ucciso il 4 aprile del 1968. Il suo sogno, quel suono forte e deciso della sua voce che dice “I have dream…” resta come un’eco forte tra i miei migliori pensieri di libertà e di giustizia. Lunga vita, quindi, al sogno di Martin Luther King.

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