Me lo ricordo il sorriso di Giovanni Falcone. Ricordo le sue parole, i suoi passi veloci, il suo esempio di vita, i suoi momenti bui, il suo coraggio: quell’ironia, tutta siciliana, che mescola la luce al lutto, la morte alla vita, la saggezza all’entusiasmo, l’onore alla coerenza di ideali e di azioni. Ricordo quando davanti all’ingresso del Tribunale di Palermo la tensione si sentiva nell’aria, si tagliava a fette, quando arrivavano, così rumorose che la gente di Palermo iniziava ad infastidirsi, le tre auto con Giovanni a bordo assieme ai ragazzi della sua scorta. Giovanni Falcone ha segnato gli anni della mia formazione umana, civile, professionale. Avevo 24 anni quando lo fecero saltare in aria assieme a Francesca Morvillo e ai ragazzi della scorta. Ero cresciuto, avevo attraversato e vissuto gli anni di Filosofia alla “Federico II” di Napoli con il mito e l’esempio di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Quell’anno, il ’92, in due mesi appena, tra il 23 maggio e l’11 luglio, quelli della mia generazione persero i due modelli di riferimento grazie ai quali quando volevi dire di quale natura fossero gli “italiani” non pensavi solo all’omertà, alla corruzione, allo schifo di “mani pulite” che portò fuori tutto il marcio della politica e dei partiti ma pensavi con orgoglio anche a loro due.
Giovanni Falcone era tenace, come lo era Paolo Borsellino, come lo erano i tanti poliziotti e carabinieri che hanno perso la vita assieme a loro, come lo erano gli altri magistrati che sono stati uccisi e quelli che oggi rischiano la vita per gli stessi ideali. Come lo sono stati e lo sono taluni giornalisti o anche certi italiani, uomini delle istituzioni e dello Stato, della società civile e della cultura che si son opposti e si oppongono alle culture mafiose, al malaffare, alle illegalità, alla cattiva politica, alla connivenza. Sono gli italiani che hanno fatto e fanno il loro dovere, che non sono piegati alla rassegnazione, al marcio, al costume più diffuso. Giovanni Falcone sapeva perfettamente che poteva essere ammazzato. Aveva un conto in sospeso con il potere mafioso e criminale. Per questo quel 23 maggio del 1992 arrivò in quel modo e fu l’epilogo della storia di un italiano perbene nato il 18 maggio del 1939 e che aveva voluto e saputo fare della sua vita un esempio di legalità e d’impegno civile. Sicché se dopo tanti anni resta qualcosa del martirio di Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e tanti altri resta diffuso nelle pieghe di tanti slanci ideali che gli italiani sanno avere. In alcuni resta solo uno slancio, In altri diventa azione, concretezza, stile di vita. Poiché di tutte le battaglie che animarono l’impegno di Giovanni Falcone molte cose hanno dato buoni frutti tranne quella battaglia da cui tante altre ne derivano.
La mafia degli italiani “perbene”, contro la quale oggi vale più di ieri il modello di vita che viene dalla storia di Giovanni Falcone, non è stata ancora sconfitta. Anzi. Par di ricevere spesso nuova linfa. Essa è una mafia che assomiglia ad uno stile di vita e le sue origini non sono solo in Sicilia ma in molte altre parti d’Italia. A farne parte sono i politici corrotti e il “sistema” stesso di corruzione nel quale essi agiscono. Ci sono deputati, senatori, sindaci, consiglieri regionali, imprenditori, prelati, professionisti e burocrati, gente comune e affaristi, medici ed impiegati. Ci sono tutte le mele marce delle Forze dell’ordine, quelli che rubano allo Stato, quelli che vedono e non dicono nulla, quelli che votano di nuovo i tangentisti, i ladri, i delinquenti solo perché si sono convinti che sanno amministrare bene in un mondo dove, sono certi, comunque tutti rubano. Questa mafia si chiama prassi, modo di fare, stile di vita ma anche incapacità di mettersi in dubbio, di riconoscere i propri errori, di correggere quella inclinazione a fare solo e sempre i propri interessi personali. La battaglia contro questa mafia Giovanni Falcone non poteva vincerla da solo così com’era spesso, lasciato solo, da molti di quegli italiani che oggi hanno tributi e parole di elogio per il suo esempio di vita. Nel frattempo, l’omertà che traspare da molte azioni nelle vicende del nostro Paese, il ritornello solito di arresti per corruzione, tangenti, malaffare assieme al populismo che vorrebbe da una parte tutti i corrotti e dall’altra tutti gli italiani “perbene” non ha mai convinto: è un copione che abbiamo imparato a memoria. Trent’anni fa come oggi la corruzione è in molti posti ai quali non avresti mai pensato. Sono corrotti e portatori di mafia spesso proprio quegli italiani che portano con forza nelle loro parole la parola “legalità”, “moralità”, “giustizia”, “interesse pubblico”. In molti dei loro discorsi gli italiani che usano e abusano della legalità finta ed apparente c’è tutto il trasformismo, la furbizia, la mediocrità di un certo costume nostrano.
Intanto, quel che si raccoglie oggi dall’esempio di Giovanni Falcone è un percorso che non ha mai amato parole, che non si è messo in vetrina, che non si è mai vantato. Giovanni sapeva e diceva di fare “solo” il proprio dovere e ciò che scrisse e disse Paolo Borsellino un mese dopo la strage di Capaci e poche settimane prima che lui stesso fosse assassinato barbaramente è un testamento spirituale che tutti coloro a cui io assomiglio custodiscono come fosse un testo sacro, il manifesto della legalità e dell’impegno civile. Un discorso che Paolo pronunciò il 23 giugno del 1992 nella chiesa di San Domenico in occasione del trigesimo (un mese dopo) la strage di Capaci. Lo porto sempre con me e quando posso lo lascio a quegli italiani che hanno qualcosa in comune con me, che sognano, amano, vivono, agiscono per far nascere un’Italia migliore.
“Giovanni Falcone lavorava con perfetta coscienza che la forza del male, la mafia, lo avrebbe un giorno ucciso. Francesca Morvillo stava accanto al suo uomo con perfetta coscienza che avrebbe condiviso la sua sorte. Gli uomini della scorta proteggevano Falcone con perfetta coscienza che sarebbero stati partecipi della sua sorte. Non poteva ignorare, e non ignorava, Giovanni Falcone, l’estremo pericolo che correva, perché troppe vite di suoi compagni di lavoro e di suoi amici sono state stroncate sullo stesso percorso che egli si imponeva. Perché non è fuggito, perché ha accettato questa tremenda situazione, perché non si è turbato, perché è stato sempre pronto a rispondere a chiunque della speranza che era in lui? Per amore!
La sua vita è stata un atto d’amore verso questa sua città, verso questa terra che lo ha generato. Perché se l’amore è soprattutto ed essenzialmente dare, per lui, e per coloro che gli sono stati accanto in questa meravigliosa avventura, amare Palermo e la sua gente ha avuto e ha il significato di dare a questa terra qualcosa, tutto ciò che era ed è possibile dare delle nostre forze morali, intellettuali e professionali per rendere migliore questa città e la patria cui appartiene. Qui Falcone cominciò a lavorare in modo nuovo. E non solo nelle tecniche di indagine. Ma anche consapevole che il lavoro dei magistrati e degli inquirenti doveva porsi sulla stessa lunghezza d’onda del sentire di ognuno. La lotta alla mafia (…) non doveva essere soltanto una distaccata opera di repressione, ma un movimento culturale e morale, anche religioso, che coinvolgesse tutti, che tutti abituasse a sentire la bellezza del fresco profumo della libertà che si oppone al p u zz o del compromesso morale, dell’indifferenza, della contiguità, e quindi della complicità. Ricordo la felicità di Falcone, quando in un breve periodo d’entusiasmo, conseguente ai dirompenti successi originati dalle dichiarazioni di Buscetta, mi disse: la gente fa il tifo per noi. E con ciò non intendeva riferirsi soltanto al conforto che l’appoggio morale della popolazione dà al lavoro del giudice. Significava soprattutto che il nostro lavoro, il suo lavoro, stava anche sommovendo le coscienze, rompendo i sentimenti di accettazione della convivenza con la mafia, che costituiscono la sua vera forza. Questa stagione del “tifo per noi” sembrò durare poco, perché ben presto sopravvennero il fastidio e l’insofferenza per il prezzo che la lotta alla mafia, la lotta al male, costringeva la cittadinanza a pagare. Insofferenza alle scorte, insofferenza alle sirene, insofferenza alle indagini, insofferenza a una lotta d’amore che costava però a ciascuno non certo i terribili sacrifici di Falcone, ma la rinuncia a tanti piccoli o grandi vantaggi, a tante piccole o grandi comode abitudini, a tante minime o consistenti situazioni fondate sull’indifferenza, sull’omertà o sulla complicità. Insofferenza che finì per provocare e ottenere, purtroppo, provvedimenti legislativi che, fondati su un’ubriacatura di garantismo, ostacolarono gravemente la repressione di Cosa nostra e fornirono un alibi a chi, dolorosamente o colposamente, di lotta alla mafia non ha mai voluto occuparsi. In questa situazione Falcone andò via da Palermo. Non fuggì. Tentò di ricreare altrove, da più vasta prospettiva, le condizioni ottimali per il suo lavoro. Per poter continuare a dare. Per poter continuare ad amare. Venne accusato di essersi avvicinato troppo al potere politico. Menzogna!
Qualche mese di lavoro in un ministero non può far dimenticare il lavoro di dieci anni. E Falcone lavorò incessantemente per rientrare in magistratura. Per fare il magistrato, indipendente come lo era sempre stato, mentre si parlava male di lui, con vergogna di quelli che hanno malignato sulla sua buona condotta. Muore, e tutti si accorgono di quali dimensione ha questa perdita. Anche che per averlo denigrato, ostacolato, talora odiato e perseguitato hanno perso il diritto di parlare. Nessuno tuttavia ha perso il diritto, e anzi il dovere sacrosanto, di continuare questa lotta. Se egli è morto nella carne, è vivo nello spirito, come la fede ci insegna; le nostre coscienze, se non si sono svegliate, devono svegliarsi! La speranza è stata vivificata dal suo sacrificio, dal sacrificio della sua donna, dal Sacrificio della sua scorta. Molti cittadini, è vero, ed è la prima volta, collaborano con la giustizia nelle indagini concernenti la morte di Falcone .
Il potere politico trova, incredibilmente, il coraggio di ammettere i suoi sbagli e cerca di correggerli, almeno in parte, restituendo ai magistrati gli strumenti loro tolti con stupidi pretesti accademici. Occorre evitare che si ritorni di nuovo indietro, occorre dare un senso alla morte di Giovanni, alla morte della dolcissima Francesca, alla morte dei valorosi uomini della sua scorta.
Sono morti per tutti noi, per gli ingiusti, abbiamo un grande debito verso di loro e dobbiamo pagarlo gioiosamente, continuando la loro opera; facendo il nostro dovere, rispettando le leggi, anche quelle che ci impongono sacrifici, rifiutando di trarre dal sistema mafioso i benefici che potremmo trarre ( anche gli aiuti, le raccomandazioni, i posti di lavoro); collaborando con la giustizia, testimoniando i valori in cui crediamo, in cui dobbiamo credere, anche dentro le aule di giustizia: troncando immediatamente ogni legame di interesse, anche quelli che ci sembrano più innocui, con qualsiasi persona portatrice di interessi mafiosi, grossi o piccoli; accettando in pieno questa gravosa e bellissima eredità di spirito. Dimostrando a noi stessi e al mondo che Falcone è vivo”.