Al lavoro doniamo i giorni della nostra vita. Vochiamo gli affanni, le speranze, le attese, le bellezze che abitano dentro le nostre vite. Il lavoro è una parte di noi: quella migliore ma anche (e troppe volte) quella peggiore. Il lavoro crea spesso quelle stesse diseguaglianze che vuole combattere. Il lavoro è riscatto, ricchezza, vantaggio ma anche sconforto, delusione, vessazione. Il lavoro consente che l’opera dell’ingegno umano possa fare del mondo un posto migliore ma quante altre volte rende, invece, il mondo un posto peggiore? Il lavoro capace di prestarsi ad essere un gioco quando eravamo bambini come un tempo e che, oggi non di rado, diventa tragedia, lavoro nero, lavoro imposto, suicidio sociale, povertà, bisogno infinito.
Per il lavoro le nostre esistenze cambiano, sono costrette a fare giri immensi, a dividerci per ore, giorni, mesi, anni dai nostri affetti più cari: i nostri figli, i nostri genitori, i nostri amori, i luoghi dove venimmo al mondo. Al lavoro doniamo tutto quello che si può donare. E cerchiamo spiragli quando il lavoro manca. Il lavoro è tiranno quando crea legami infami tra colui che un tempo (e spesso anche ora in molte parti del mondo) con disprezzo abbiamo definito “il padrone” e chi, invece, è costretto a lavorare molte più ore di quelle che gli vengono pagate. C’è chi per lavoro cambia paese, città, nazione, condizione di vita.
Sicché saranno almeno trent’anni che, ogni primo maggio, ascolto i versi (e le musiche con cui sono stati cantati) che Pietro Gori, avvocato, intellettuale e poeta italiano, nato a Messina il 14 agosto 1865 e morto a Portoferrato l’8 gennaio del 1911, ha lasciato in una delle sue poesie/canzoni più belle che chiamò “Sante Caserio”. Pietro Gori scrisse diverse e bellissime canzoni. Testi con i quali, un secolo dopo, ritroviamo l’anelito di passioni civili e d’infinita bellezza con il cui il poeta messinese aveva decise di lasciarci una parte di sé. Ma quelli che dedicò a Sante Caserio e al suo sacrificio hanno superato, di certo, il tedio di ogni oblio. “Sante Ieronimo Caserio, dice la nota storica che ne riporta i gesti con Wikipedia – talvolta erroneamente indicato come Sante Geronimo Caserio o Santo Caserio era nato a Motta Visconti l’8 settembre del 1873 e morto a Lione il 6 agosto del 1894 ad appena venti anni”. Era un anarchico italiano Sante Caserio noto per aver assassinato con un pugnale, nel 1894, il presidente della Repubblica francese Marie Francois Sadi Carnot volendi così rivendicare l’esecuzione dell’anarchico Auguste Vaillant che si era reso colpevole di aver ferito alcuni deputati durante un attentato dinamitardo e al quale Carnot, come ad altri anarchici, aveva negato la grazia grazia e la commutazione della pena. Anzi. Al contrario. In seguito Carnot aveva inasprito le leggi, introducendo anche reati d’opinione che andavano a colpire soprattutto gli anarchici.
Dopo l’attentato, Sante Caserio venne condannato a morte e messo a ghigliottina. Quel gesto destò non poca reazione in chi, da quel momento, aveva voluto raccontare l’impegno per migliorare la condizione dei lavoratori. La sua memoria ispirò molti canti anarchici negli anni seguenti ma in uno di questi, scritto da chi non era affatto anarchico ma soprattutto un intellettuale che della poesia custodiva l’abilità e la bellezza è rimasta intatta la visione dei quel gesto folle e disperato perpetrato solo per amor di libertà e di giustizia. I versi di Pietro Gori sono stati musicati in vario modo. Eppure, dopo averne letto con attenzione e per i intero le parole vado a cercare sempre quella versione che mi incanta più delle altre realizzata, da un conterraneo amico di amici cari ed egli stesso mio amico, Daniele Sepe. Vi ripropongo, di seguito, la bellezza dei quei versi che Pietro Gori scrisse e la versione di Daniele Sepe.
Lavoratori a voi diretto è il canto di questa mia canzon che sa di pianto e che ricorda un baldo giovin forte che per amor di voi sfidò la morte.
A te, Caserio, ardea nella pupilla de le vendette umane la scintilla, ed alla plebe che lavora e geme donasti ogni tuo affetto, ogni tua speme.
Eri nello splendore della vita, e non vedesti che notte infinita; la notte dei dolori e della fame, che incombe sull’immenso uman carname. E ti levasti in atto di dolore, d’ignoti strazi altero vendicatore; e t’avventasti, tu, si buono e mite, a scuoter l’alme schiave ed avvilite.
Tremarono i potenti all’atto fiero, e nuove insidie tesero al pensiero; e il popolo cui l’anima donasti non ti comprese, e pur tu non piegasti. E i tuoi vent’anni, una feral mattina gettasti al mondo dalla ghigliottina, al mondo villa tua grand’alma pia, alto gridando: «Viva l’Anarchia!».
Ma il dì s’appressa, o bel ghigliottinato, che il tuo nome verrà purificato, quando sacre saranno le vite umane e diritto d’ognun la scienza e il pane.
Dormi, Caserio, entro la fredda terra donde ruggire udrai la final guerra, la gran battaglia contro gli oppressori la pugna tra sfruttati e sfruttatori. Voi che la vita e l’avvenir fatale offriste su l’altar dell’ideale o falangi di morti sul lavoro, vittime de l’altrui ozio e dell’oro, martiri ignoti o sciera benedetta, già spunta il giorno della gran vendetta, de la giustizia già si leva il sole; il popolo tiranni più non vuole.