di francesco de rosa |
Avevo poco meno di dodici anni quando, ancora alle medie inferiori, tornando a casa, fremevo che arrivasse sera per guardare una nuova puntata di una delle inchieste di Sergio Zavoli. La notte della Repubblica, Viaggio intorno all’uomo, Viaggio nel Sud e tante altre inchieste che hanno segnato la mia prima formazione al testo scritto e parlato. Senza saperlo, senza nemmeno accorgermi lo avevo scelto “maestro” per il suo stile inconfondibile, per il modo di raccontare il mondo, gli accadimenti di quegli anni. Persino le cose che abbiamo di dentro. Avevo scelto Sergio Zavoli per il suo modo di preparare nei minimi dettagli ciò che doveva accadere nel corso delle puntate delle sue inchieste. Un giornalismo d’approfondimento che usava il testo scritto con dovizia. Che sapeva dove, quando e come una dissolvenza poteva essere esaltata da un brano musicale. O il taglio di un viso, sul lato sinistro del televisore, sapeva guardare il passato, le pieghe del volto, la luce degli occhi: tutti dettagli di una ripresa che si faceva emozione. Avevo scelto così di fare il giornalista grazie al modo in cui lui, Sergio Zavoli, è stato, nel corso di una vita che oggi è appena finita, un giornalista. Ravennate d’origine, contiguo alla patria riminese dell’amico Federico Fellini, Sergio Zavoli era nato il 21 settembre del 1923. Letterato, poeta, umanista a tutto tondo ma, soprattutto, innamorato della Filosofia per la quale si era laureato, come poi decisi di farlo io.
Così, in quest’anno strano (del covid, della pandemia e dell’isolamento) stanno morendo i miei migliori Maestri: di cultura, di professione, di vita. Solo poco tempo fa è andato via Aldo Masullo che mi è stato Maestro di Filosofia. Oggi, invece, è accaduto a Sergio Zavoli. Un giorno, al Senato della Repubblica mentre svolgevo un incarico di consulenza per la Commissione cultura al fianco di Aldo Masullo, arrivò per caso anche Sergio Zavoli. Che strane coincidenze! Li ho visti insieme allora. Li vedo assieme oggi lì dove le cose umane non ci sono più. Certo! Poi la vita deve continuare. Ma quel che la vita porta via non torna più e da quel momento manca un pezzo del mondo che siamo stati. “Ogni uomo che muore è un mondo che muore!” mi aveva detto con fermezza Aldo Masullo nel suo studio al Vomero in uno dei nostri e tanti incontri. Per fortuna, vive da qualche parte, senza temere nessuna morte, ciò che i pochi maestri di una vita che ciascuno di noi ha, su fronti e motivi diversi, hanno lasciato a chi li ha visti tali.
Nei miei anni vissuti a Roma, subito dopo gli studi universitari, avevo incontrato in più di un’occasione il “maestro” Sergio Zavoli. C’eravamo detti di rimanere in contatto. Con il suo garbo e la sua umiltà, il rigore e la fermezza di chi non baratta mai parole diverse. Il mio primo sito web aveva una sezione dedicata a lui tanto che volle telefonarmi un giorno per ringraziarmi circa le belle parole a lui riservate. Eppure in nessun istante mi venne mai l’idea di farmi aiutare, in qualche modo, ad entrare in un mondo così chiuso come lo era già trent’anni fa il mondo del giornalismo. Ne feci riflessione anche con lui. Gli dissi che dovunque sarei arrivato volevo arrivarci da solo. Non era né è mai stata superbia, orgoglio o spocchia intellettuale la mia. Io sapevo e so che il giornalismo deve restare libero e chi lo pratica, più di ogni altro, deve tenersi fuori da ogni cordata. Deve essere lontano da ogni condizionamento e così l’ho vissuto e lo vivo da sempre.
Sicché, oggi che un pezzo della mia giovinezza e della mia formazione umana e professionale è andato via restano lì, vive ed indelebili, tutte le lezioni che ho appreso da ragazzo da chi fu artefice e modello della mia formazione. Il tono, il valore, lo stile di raccontare le cose, di poter rendere l’emozione in un racconto furono alcuni degli aspetti più belli.
Sarà, intanto, che certe volte, come ora, lì dove non arriva nessun ragionamento che possa reggere anche domani, servono, forse, le parole più nitide e più misteriose di una poesia. Magari una di quelle poesie scritte da Sergio Zavoli stesso e da lui letta in occasione di un appuntamento che visse proprio nella sua Ravenna qualche anno fa. Parlò di ombre e disse: «Ombra mia, ti allontani leggera come un’eco. Ti liberi. Svanisci. Lo sento che ti perdo. Ora mi vestirò dei tuoi colori per essere tutt’uno almeno qui, dove ci separiamo. Mia sembianza. Io sono stato, a volte, la tua ombra. Tu non mi sbuggiardavi. Si stava insieme, lo ricorderai, senza sapere chi dei due era l’altro.»
Addio caro Maestro mio di giornalismo e vita. Ti porterò sempre con me finché avrò vita! Grato per tutto ciò che hai fatto per me.