L’idea della cura ha una lunga tradizione filosofica, e Boris Groys, autore del libro “Filosofia della cura“, la segue per intero. Da Platone a Focault, passando per Hegel, Nietzsche e Bataille, tra molti altri – per porre una domanda centrale: chi è il soggetto della cura? Devo prendermi cura di me o affidarla ad altri, al sistema, alle istituzioni? In effetti, l’autoguarigione è un principio rivoluzionario che mette l’individuo di fronte ai meccanismi di controllo dominanti.
una recenzione di cecilia guida
“Nelle società contemporanee il lavoro di cura è la modalità di lavoro più diffusa. Per la nostra civiltà, la tutela della vita umana è l’obiettivo supremo”. Con queste frasi, che ci rimandano a Foucault e agli stati moderni come stati biopolitici, si apre l’ultimo libro di Boris Groys, edito in italiano dalla neonata casa editrice Timeo, con un titolo conciso che è Filosofia della cura. All’interno del saggio sono tante le dimensioni e le problematiche legate alla nozione, alla pratica e all’etica della cura, dal corpo fisico a quello simbolico, dal desiderio di riconoscimento alla promessa di guarigione, dall’esposizione mediatica dei corpi alla privacy. Tutte questioni ruotanti attorno all’analisi di due nuclei tematici principali, quali la relazione tra il sistema di cura e il concetto di cura di sé, e l’accettazione della morte come libera scelta rivoluzionaria che, emergendo in filigrana nella ricognizione compiuta dall’autore, ci spinge a fare i conti con un’esistenza anestetizzata e macchinica controllata dalle attuali istituzioni di cura.
Groys ci ricorda che nella società moderna secolarizzata la medicina e gli ospedali hanno preso il posto della religione e delle chiese: “la salute sostituisce la salvezza.” (M. Foucault, Nascita della clinica. Una archeologia dello sguardo medico, 1985, cit. p. 7) Il ruolo che spettava ai preti è passato ai medici, e così alla cura della vita dell’anima e del suo destino in un aldilà spirituale è subentrata la protezione dei corpi materiali e delle loro estensioni, definite “corpi simbolici” (fotografie, documenti, video, libri, siti web, account Instagram). Il sistema della cura non intende l’essere umano come oggetto ma piuttosto come soggetto, nel senso che esso inizia a curarsi di un corpo solo se il paziente ne fa richiesta perché si sente debole o malato. In altri termini, tratta il paziente come un cliente che sa dove andare e a chi rivolgersi. Ma noi non conosciamo i nostri corpi, possiamo solo vagamente intuire come funzionano: potremmo sentirci malati ed essere invece in perfetta salute, o viceversa. Questo significa che, sebbene la medicina (questo discorso vale anche per le varie pratiche di guarigione alternative) si presenti come una scienza, senza avere una qualche conoscenza medica o un background professionale la decisione di uno specifico trattamento sanitario, rimarcata dal consenso espresso per iscritto, implica per il paziente (ancora) un atto di fede.
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Il rapporto tra oggetto e soggetto del sistema medico è esaminato dall’autore anche attraverso il pensiero espresso da Heidegger in Essere e tempo (1927), dove per la prima volta nella storia della filosofia la nozione di cura assume un ruolo centrale e il punto fondamentale sta proprio nel conflitto tra le moderne istituzioni della cura e la cura di sé, intesa come autoaffermazione. Il filosofo tedesco, definendo l’uomo come Dasein, come essere-nel-mondo, ritiene impossibile pensarlo come “soggetto” contrapposto al mondo come “oggetto”: il mondo e il Dasein non possono essere separati l’uno dall’altro. Se il Dasein sa che la sua esistenza è minacciata dalla morte e prova angoscia per questo, è anche consapevole del fatto che continuerà a esistere, se continuerà a curarsi. Quindi la cura di sé diventa la modalità ontologica dell’esistenza umana. In questo senso sono interessanti i due significati che la parola cura (sorge) ha in tedesco, ovvero essere preoccupati per qualcosa e curarsi di qualcosa. Due accezioni diverse ma interconnesse presenti anche nell’etimo sanscrito ku-/kav- del termine latino cura che vuol dire osservare, guardare, mentre kavi è l’assennato, il saggio. Pertanto nelle nostre radici culturali la cura riguarda l’osservazione, la saggezza, il prendere sul serio una preoccupazione e richiede, conseguentemente, un atto di responsabilità.
Per Groys nella storia dell’Occidente diverse sono le dottrine filosofiche, da Platone a Hannah Arendt, che riflettono sull’ambivalenza di forza e debolezza, sulle forme di relazione tra corpo fisico e simbolico, tra dipendenza e autonomia. Il Socrate di Platone, nella sua paradossale regressione allo stato di non-sapere, è interessato alla verità che aiuta a nascere in un’altra persona servendosi di una metafora medica, ovvero paragonandosi a una levatrice che aiuta le altre donne a partorire. Il metodo socratico è affascinante proprio perché sostiene che l’individuo/paziente abbia già la verità dentro di sé, anche se questa rimane nascosta. Nel noto mito della caverna Socrate ribadisce che, per contemplare la verità, è necessario essere sottoposti a una pressione esterna: il soggetto è debole per prendere l’iniziativa perché troppo preoccupato (della caverna) dei desideri corporei e del suo status sociale. Solo nel momento in cui essi vengono rimossi, la verità si mostra e l’anima è finalmente in grado di contemplare se stessa. Se in Platone la cura filosofica della contemplazione della verità coincide con la preparazione alla morte, in Hegel il filosofo è colui che osserva il movimento progressivo della storia attraverso il quale la verità si realizza come libertà sotto forma di negazione dell’ordine esistente. Hegel, nato nel 1770, vede nel terrore della Rivoluzione francese la rivelazione definitiva della soggettività umana e la fine della storia. “Il terrore rivoluzionario insegna agli individui il terrore della morte quale ‘signore assoluto’. La paura post-rivoluzionaria della morte dunque non coincide con la paura prerivoluzionaria di Dio. Per l’individuo adesso la morte non è più un pericolo esterno, ma l’opera della sua libertà.” (p. 32) In questo senso la negatività della libertà assume un significato positivo e lo Stato post-storico, nell’impedire agli individui di assumere il controllo della morte, diventa lo Stato della protezione e della cura assolute, trasformando di fatto (qui Groys si fa particolarmente provocatore) la popolazione in una massa di pazienti.
Con Nietzsche si passa dalla ricerca della verità alla filosofia della salute. Il filosofo tedesco, che era debole e spesso malato, si sofferma su cosa significa essere realmente sani stabilendo una relazione tra salute e libertà. Nell’organismo sano la salute coincide con l’energia che si manifesta nell’azione. La salute dunque è aggressiva e autoaffermativa sin dall’inizio, mentre la libertà è un processo dialettico e diviene autoaffermazione solo alla fine della storia, nel momento in cui si nega. Parlando di Zarathustra, Nietzsche lo definisce come colui che gode di “grande salute” e per spiegare cosa intende cita un passo da La gaia scienza (1882): “Noi uomini nuovi, senza nome, difficilmente comprensibili, noi figli precoci di un avvenire ancora non verificato, abbiamo anche bisogno di un nuovo mezzo per un nuovo scopo, cioè di una nuova salute, una salute più vigorosa, più scaltrita, più tenace, più temeraria, più gaia di quanto non sia stata fino a oggi ogni salute.” (cit. p. 43) Possiamo ritrovare in questa frase la nascita dell’ideologia della creatività che domina ancora l’immaginazione individuale e sociale del nostro tempo. Per Groys oggi chiameremmo questi “uomini nuovi” creativi perché inventano nuove possibilità di vita, nuove tecnologie e nuovi modi di pensare. I creativi né si prendono cura di sé né chiedono cure ma accettano, anzi plasmano, la propria morte come forma di lotta contro lo Stato biopolitico. “Vivere, in generale, vuol dire essere in pericolo” è il celebre motto del giovane Nietzsche. Alexandre Kojève, tra i maggiori interpreti della lezione hegeliana (era nipote di Wassily Kandinsky), aggiunge a questo discorso il ruolo svolto dal desiderio e parla dei filosofi come di attivisti che lottano per cambiare la storia, mossi da desideri di riconoscimento, ottenuto il quale diventano Saggi. L’aspetto interessante è che questi ultimi non sono geni creativi che godono di “grande salute” ma sono considerati come macchine che svolgono un lavoro di cura anonimo e ripetitivo, e per questo sono infinitamente sostituibili e immortali. Qui emerge una contraddizione tra il sistema della cura e la cura di sé, poiché il primo si preoccupa dell’uomo in quanto lavoratore e non in quanto animale desiderante, mentre la seconda ritiene che desiderare e soddisfare i propri desideri sia qualcosa di sano, e al contrario sopprimerli non lo sia. E così, ancora una volta, diventa fondamentale liberarsi della dipendenza dalle istituzioni della cura per praticare la cura di sé.
Il riconoscimento è un tema su cui l’autore ritorna più volte all’interno del libro perché, a suo parere, ispira lo spettacolo moderno della cultura e della politica. “Il pubblico ha sostituito Dio ed è diventato il grande Altro dello spettacolo. (…) Dio poteva vedere nell’anima – il pubblico può vedere e giudicare solo i corpi, i loro movimenti e le loro azioni. Ciò nonostante, si ritiene che il pubblico abbia sempre ragione.”(p. 80) È particolarmente significativo e audace che lo sguardo del pubblico sia considerato la“forma suprema della cura” (p. 84) A questo punto la domanda è: chi è il pubblico? Groys sceglie di rispondere citando Richard Wagner, che ne L‘opera d’arte dell’avvenire (1849) definisce il popolo (Volk), più che il pubblico borghese (che rigetta), rispetto alla condivisione di una stessa necessità. Definizione che in qualche modo evoca il concetto di comunità, non a caso Wagner credeva che l’arte del futuro sarebbe stata collettiva e comunitaria. Sebbene il compositore tedesco consideri il pubblico e le sue reazioni come il fattore decisivo dell’arte, le sue idee non convincono in quanto presuppongono che esso sia sano. Su questo aspetto interviene Nietzsche che sostiene che il pubblico aveva contagiato Wagner, il quale iniziò a produrre un’arte decadente e malata perché era ciò che il suo pubblico si aspettava da lui. Groys dedica due dei dodici capitoli del libro alla relazione tra l’opera e le aspettative del pubblico dimostrando, con una nota di amarezza, che anche l’artista non può trascendere la società della cura e deve confrontarsi con un pubblico addomesticato dallo Stato biopolitico.
Da teorico dei media, il filosofo tedesco non poteva non trattare la questione della privacy nei social network dove il corpo privato, fisico, intimo coincide con quello pubblico, simbolico, mediatizzato. Oggi, come aveva predetto Andy Warhol con i 15 minuti di celebrità mediatica per tutti, gli account Facebook o Instagram funzionano come estensioni simboliche, quasi immediate dei corpi fisici, che richiedono necessariamente riconoscimento e ammirazione da parte degli altri/spettatori. Perché tale sovraesposizione funzioni e piaccia va progettata, di conseguenza il “design di sé”, quale forma di protezione e di cura, ha trasformato gli individui sia in artisti sia in opere autoprodotte. In Internet il corpo umano diventa un oggetto in un museo, che richiede contemplazione e cura.
Filosofia della cura è un volume scritto in modo accurato che si presta bene a una lettura scorrevole, anche grazie a una struttura con uno sviluppo “relazionale” dove, dopo un’introduzione limpida, ogni capitolo costituisce le premesse del successivo e un approfondimento e, in alcuni casi, messa in discussione di quello precedente. I lettori a cui si rivolge Groys sono potenzialmente tutti ma, in modo particolare (e prevedibile pensando ai suoi libri precedenti), coloro i quali lavorano nel settore creativo, visto che spesso tratta di processi artistici, opere d’arte e modi per preservarle, non solo all’interno dei musei ma anche in rapporto ai loro pubblici. Tuttavia l’analisi è condotta con uno sguardo che è/resta antropocentrico, si parla di corpi umani e di cose, e non c’è alcun riferimento ad altre forme di esistenza né a cosa significa oggi prendersi cura del nostro pianeta surriscaldato e malato. Una mancanza che ho avvertito in modo rilevante, perché avrei letto con interesse le speculazioni su questi temi di un filosofo del suo calibro che offre pensieri in grado di liberarci dalle catene del sistema costituito.
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