Cara mia madre, mi fa strano chiamarti così in questa lettera che tu certamente non ti aspetterai. In fondo ti ho sempre chiamata con altri nomignoli. Ma è vero anche che una lettera non te l’avevo mai scritta se fanno eccezione le letterine che da piccoli portavamo a casa in occasione delle feste. Di quelle scritte a scuola tutti assieme. Le mie letterine erano sempre al singolare: avevo sempre solo un genitore presente attorno al tavolo delle feste. Sono passati decenni da quei tempi che un giorno scappai persino dalla scuola delle mie elementari retta dalle suore che di severità e regole ne avevano a iosa.
Io e te siamo cresciuti assieme. Avevi vent’anni quand’io venni al mondo e dove accadde, dove ancora vivi tu, non c’era né incenso né mirra né altre mirabilie ma un tavolo che aveva un piede rotto e traballante. Sopra quel tavolo tu mi partoristi un giorno di maggio nelle mani di una levatrice arrivata in gran fretta nella casa della tua mamma che con il tempo divenne la mia prima fan, mia nonna Elisabetta. Solo questo varrebbe già scriverti la lettera più bella del mondo. E invece scrivo a te perché finalmente, in questi giorni, ti ho rivista più felice che non accadeva da mesi e soprattutto non accadeva dopo le tue ultime due cadute. Così mosso a condivisione ho deciso di scriverti questa lettera. Chi mai ha detto che le lettere devono narrare solo giorni bui? O sofferenze. O dipartite dolorose. A 76 anni quasi che avrai tra poche settimane le cadute sono insidie pericolosissime nascoste dietro ogni passo che si fa. Ma tu starai più attenta d’ora in poi per andare, oltre ogni passo, fin dove la vita ed il buon Dio ti porteranno. Che quando a sera fai il bilancio di quello che il cielo ti ha regalato in un giorno hai sempre l’antica, bella e sana abitudine di essere grata. Un atto di vita e di rispetto per il grande Creatore che ci dona giorni e tutto quello che i giorni portano a noi. Se hai raccolto vento oppure carezze, se la semina ha dato frutto, se un lavoro che hai lasciato lo scorso novembre, fare da cuoca al convento dei frati francescani, poteva insidiare anche il tuo primo e vero lavoro. Quello che hai fatto da sempre che non avevi nemmeno 12 anni. Quello di cui ricordo tutto da quando ho raccolto e custodito i primi ricordi nitidi della vita: una ragazza dietro una macchina per cucire abiti da sposa e da comunioni. Tu sai bene che sul tema del tuo lavoro potremmo raccontare pagine intere. Che se dovessi avere in mente una persona che nel lavoro ha cercato, sopra ogni cosa, dignità, indipendenza e sostentamento quella persona sei stata e sei tu. Senza chiedere mai nulla a nessuno, nessuna scorciatoia. Senza cercare privilegi, senza mai negare compassione, generosità, legalità ed onestà. Senza sosta alcuna persino quando tornata alle 19 dal cuore di Napoli a casa tua ricominciavi a lavorare fino a tarda sera. Il decennio settanta del Novecento io lo ricordo così ch’ero un bambino e tu seduta sempre dietro la tua macchina per cucire a trovare fatica e felicità. Vivi oggi come sempre in nome del lavoro e dell’idea che la vita va ben spesa ed onorata proprio con il lavoro anche in questi giorni di vigilia per coloro che hanno deciso di fare la loro prima comunione a cui tu preparerai l’abito della funzione religiosa.
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In fondo è bastato questo per farti ritornare il sorriso, il tuo buon umore, la tua sana ironia, il sonno più tranquillo durante le notti e farti vincere quel cupo senso di depressione che chiamano senile quando si pensa, alla tua età, che il capolinea della vita potrebbe essere più vicino. La combattente che è in te e che ho conosciuto da sempre mi è tornata in mente in questi giorni. L’ho rivista davanti ai miei occhi. Sicché mi perdonerai tutte le volte che ho sbottato davanti al tuo pessimismo, ai giorni più bui che mi hai palesato. La tua grinta mi è rimasta contagiosa e tornata innanzi come la tua più bella impronta. In nome di essa ti scrivo questa lettera per renderti l’omaggio che meriti nonostante tutti gli anni e i giorni e le sere inoltrate passati a lavorare ti abbiano potuto assicurare solo il minimo della pensione di vecchiaia dacché tutti i datori di lavoro che hai avuto sono stati sommariamente e volutamente disonesti a versarti solo una manciata di anni in previdenza tra tutti quelli, quasi 60, durante i quali hai onorato sempre e con gioia, come ora, il lavoro. Mi sarà da lezione persino la saggezza che hai oggi nel dividere ciò che la pensione minima ti garantisce per fartelo bastare tutto il mese. E capirai me se ho messo il peso dei miei pensieri cupi nel vederti dolente sopra il peso dei tuoi che senti per l’età, gli acciacchi, le cadute prese e superate, per gli schiaffi della vita, per la perdita di persone a te carissime che sono andate via come neve al sole, come lampi di notte per poi lasciarti al buio. Io mi auguro che tu possa vivere più a lungo e felice possibile anche per onorare le loro memorie: Maria, Enzo, Lilina, Sofia, Luisa, Salvatore, Lorenzo, Guido, Michele, Luigi, Enza e tanti altri tuoi più cari amici che non vedi più e a cui non puoi più telefonare. Alla tua età lacera il cuore leggere la lista che si allunga delle persone che non puoi più vedere in questo mondo. Tu combatti la tristezza con la grinta, l’ironia, la voluta dimenticanza e ti nascondi dietro il fumo delle tue sigarette il cui vizio, ahimè, non hai mai perso. Ma in fondo, se fai caso, siamo tutti, noi viventi, dei sopravvissuti se pensiamo a coloro che non sono più con noi e volevano esserci ancora nonostante tutto. E potevano ancora esserci. Tu sii felice e custodisci il segreto della tua età senile, la vecchiaia, come una grande fortuna. Invecchiare è sempre una grande fortuna. Ogni ruga, ogni acciacco è il segno di un vissuto di cui è rimasta l’orma. Sii combattente anche a questa età mescolando sogno e resilienza. Ora mi dirai che uso parole troppo difficili come quando appena dodicenne, da solo e d’un tratto, decisi di iniziare a parlare la lingua italiana e non più il dialetto delle origini che pur sempre amo, lingua anch’essa di poesia e vissuto. E tu mi guardavi strano manco fossi stato un marziale. Temevi che quel mio parlare diverso dall’idioma popolare delle strade in mezzo alle quali stavo crescendo mi facesse supponente e distante dagli altri.
Sarà che la vita è sogno e che il sogno è la vita. Sarà che con la tua terza elementare sei riuscita ad insegnarmi che la legalità è il rispetto delle regole nella propria vita anche quando tutti attorno a te non le rispettano affatto. Che l’umiltà è vera e vale sempre anche quando tuo figlio si laureò con il massimo dei voti e la lode e tu venisti in ultimo perché non lo sapevi neppure. O quando uscirono in libreria i miei primi libri ormai decenni fa. Che stare al mondo non è pensare dapprima al proprio tornaconto e poi a quello degli altri. Che i giorni che hai ed avrai vanno custoditi come perle rare. Che i ricordi sono parte di te ma tu non sei nei ricordi che hai. Lunga vita a te, cara mia mamma, e ogni gratitudine per tutto quello che mi hai insegnato pur non volendoti mai mettere a dare lezioni. La tua saggezza ha sempre saputo che la vita più di tutto e di tutti è l’unica “maestra” che, oltre te che pure chiamano maestra per l’arte del cucito, è capace di dare le uniche lezioni che restano e che nessuno potrà cancellare.
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