Ammetto. Mi fa sempre un certo effetto vedere alcuni adulti a me cari subire il cupo grigiore dei nostri tempi. Trapelano dai loro discorsi sofferenze profonde, disagi, l’ansia della vita, le sue difficoltà. Le loro azioni sono sempre più minate da tutto ciò che fa riferimento ad una parola/disagio che sta “spopolando” in questi anni: l’anedonia. Il loro stato mentale, in tempi altri in ambito dove regna maestra filosofia a cui mi appello per professione ed ispirazione, sarebbe stato legato allo stato mentale di un nichilista, posizione filosofica che “concepisce la realtà in genere o alcuni suoi aspetti essenziali, dai valori etici alle credenze religiose, dalla verità all’esistenza, nella loro nullità”. Ne sono affetti persino i ragazzini che mi lasciano sempre sbigottiti quando li sento e mi parlano del pessimismo che permea la loro visione di vita. Intanto il termine anedonia si fa sempre più strada. Deriva dal greco antico, di quello che ha animato i mei pomeriggi di studio da liceale. Significa “assenza di piacere” e si tratta di un sintomo piuttosto trasversale, che accomuna numerosi quadri psicopatologici. Rende persone di ogni età privi della gioia che la vita porta con sé. Ho provato a raccogliere per voi qualche dato in più…
Alla fine resta la lotta atavica di sempre, contrapposizioni, contrasti tra cose opposte: la luce ed il buio, la speranza e la rassegnazione, l’ottimismo e il pessimismo, il bene e il male. Antinomie sulle quali ogni campo del sapere ha espresso e proposto punti di vista, dottrine, approcci, stati mentali, percorsi e stati di guarigioni. E noi a chiamarla depressione, nichilismo, stanchezza, ansia di vita in un tempo, come quello presente, che tocca tutte le età. La civiltà del progresso e lo shock della pandemia che è stata globale ci ha regalato fragilità che non conoscevamo prima. Antiche e vecchie insidie, individuali e collettive, che abbiamo chiamato e definito con nomi diversi minano la gioia di vita che lo stare al mondo dovrebbe portare con sé. Ne fanno le spese tutti. Che quando gli anziani dentro l’imbuto cronologico della demenza senile. O quando ascolto i miei amici più cari feriti dentro le loro sofferenze contemporanee resto impotente e ribelle. Lungo quella strada si è fatta avanti ciò che oggi definiamo “anedonia” Nemmeno avrei immaginato durante i miei anni universitari che quel termine sarebbe diventato di moda oggi: un disturbo che descrive l’appiattimento del proprio stato emotivo. Coloro che ne sono affetti “diventano” incapaci di provare piacere e interesse, anche per attività che un tempo erano da loro stessi ritenute gratificanti. Come fosse uno squarcio d’irreale sul reale, di impotenza sulla potenza di ogni creatività, una resa incondizionata e “forse” passeggera sull’entusiasmo che impegni, progetti, ambiti e lavori potevano e possono dare.
Non nata oggi ma sempre vissuta dentro i rischi che la condizione umana e mentale porta con sé, l’anedonia è una condizione emotiva complessa e spesso debilitante. Porta chi ne soffre all’incapacità, totale o parziale, di provare piacere dalle attività e dagli stimoli che normalmente dovrebbero suscitare soddisfazione, appagamento e interesse come il cibo, le relazioni interpersonali e le esperienze sensoriali. Un malessere che ingigantisce ogni problema e lo fa diventare insopportabile. Una condizione che ha radici profonde nelle sfumature dei processi neuropsicologici e che spesso emerge come un sintomo di base in diverse patologie mentali, quali depressione, disturbi dell’umore, schizofrenia e psicosi. La vita della mente e le sue “derive” ha connessioni a sempre. Vive dentro i nostri pensieri ciò che diventa la nostra azione, il nostro comportamento.
L’anedonia diventa così quella forma di malessere che può avere un impatto significativo sulla vita di coloro che ne soffrono e può essere anedonia sociale quando implica un disinteresse verso le relazioni con altre persone. Oppure anedonia fisica quando si traduce nell’assenza di piacere nel cibo e nelle più comuni esperienze sensoriali. In ogni caso rappresenta anche uno dei segnali distintivi in vari disturbi neurologici, come ad esempio il morbo di Parkinson, dove spesso si manifesta insieme a problemi cognitivi e difficoltà di movimento (acinesia). Si annota che “gli individui affetti da anedonia presentano una serie di segnali rivelatori. Uno dei più evidenti è la mancanza di piacere per attività che una volta erano fonte di gioia: il cibo, ad esempio, inizia a perdere il suo sapore gratificante e le attività sociali cominciano a diventare faticose e prive di significato. Non si tratta di singoli episodi di tristezza momentanea o di mancato entusiasmo, ma piuttosto un segnale di qualcosa di più profondo. Un disturbo che può presentarsi anche come un’incapacità di provare emozioni positive in risposta a eventi che normalmente dovrebbero generare felicità. Persino un compleanno o un traguardo professionale o personale raggiunto”.
Ciò che colpisce alla fine è quel senso di impotenza che si prova quando stai vicino o, più ancora, quando hai un legame di vita significative e costante con persone che soffrono di anedonia e magati nemmeno lo sanno. Quando un figlio, un genitore, un amico un’amica porta avanti parole di cupo grigiore, la stanchezza della vita, la sua fragilità, l’assenza di forza che invece ci vorrebbe, di forza, tanta e tale da fronteggiare tutte le difficoltà materiale e mentali, le incertezze, gli ostacoli che la vita porta con sé quando diventa giungla, trappola, prova difficile. Quando l’età che si vive, ovunque si vive, diventa un peso insopportabile. A loro e a quella parte di me che sente quel peso dirò sempre “coraggio”. Ci sarà senza dubbio una strada per arrivare all’alba di nuovi accadimenti, a nuove gioia di vita, alla capacità di godere dell’attimo presente e di ringraziare l’Universo per questa vita che abbiamo.