Lo abbiamo letto e sentito diverse volte in questi giorni in mezzo a lucide analisi sociali, economiche, politiche. In molti di noi lo ripetono a se stessi come fosse un mantra inconscio. Se tutto dovesse andare per il meglio e questa incredibile ed estrema esperienza di vita individuale e collettiva, a cui il nostro tempo ci ha costretti, dovesse finire tra due o tre settimane, “nulla più sarà come prima!”.
Dal coronavirus arrivano, come fossero sferzate, moniti, pugni sulla faccia, migliaia di suggerimenti. Sono lì ad indicare che un mondo, sotto i colpi del coronavirus, sta morendo. E ciò che, invece, nascerà dopo nessuno può né potrà saperlo. Un’esperienza (di cui leggeremo nei libri di storia come a spartiacque) assolutamente inedita scoppiata, nell’anno 2020, nel cuore del mondo ricco e progredito, in mezzo alle connessioni (strade) di quel sistema di vecchie certezze dentro il quale finora abbiamo potuto immaginare il presente, il futuro, il progresso e lo sviluppo, lo squilibrio e la giustizia, la storia e la stessa evoluzione della vita. Un mondo sta morendo nel silenzio surreale delle città e dei tanti posti del mondo, anche piccolissimi, dove, da giorni, per le strade, le piazze, i cortili non circola più nessuno affinché si impedisca la diffusione ulteriore del contagio. Sta morendo così quel mondo dove sono nate e si sono consolidate tutte le mappe del sistema che regge oggi le nazioni del mondo. Lì dove si erano consolidati equilibri e squilibri geopolitici, economici, di forze e domini geografici, scientifici, tecnologici e, persino, militari. Un’esperienza che ha cambiato, in pochi giorni, come mai prima, i piani dei governi, il corso degli eventi e, allo stesso tempo, i modi di agire più intimi e più personali di milioni e milioni di persone. Un evento che è entrato dentro le nostre case, negli opifici, nei negozi, nelle imprese, nelle città di ogni dimensione e luogo.
Dal coronavirus stanno arrivando, in tempo reale, lezioni cruciali, ravvedimenti inevitabili, perdite d’orientamento, accumulo di paure e di panico, smarrimenti, angosce che scavano dove nessun’altra angoscia, prima d’ora, era arrivata.
Non si tratta più di contare i contagi o i morti che ci sono stati o ci sono in Cina, Corea, Iran, Italia, Spagna, Germania, Francia, Stati Uniti, Canada, Portogallo, Norvegia, Danimarca e tanti altri luoghi del mondo che, in queste ore, stanno facendo i conti con il covid 19, quel virus letale così contagioso e così minuscolo che travolto il mondo in una pandemia senza precedenti. Si tratta, invece, di attingere a categorie ataviche della nostra convivenza (la paura, l’istinto di sopravvivenza, la necessità di capire) e di elaborare come potrà evolversi l’emergenza planetaria che trascina con sé l’economia di stati e di governi, la vita della gente, la capacità di fare previsioni plausibili. Si tratta di scavare dentro i nostri comportamenti più personali. Comprendere che siamo un solo grande organismo che si compone di miliardi di persone che, senza voler cadere nella retorica, comprendono che il destino di uno solo tra quei miliardi può determinare il destino di tutti gli altri. La “comunità degli individui” di cui la sociologia aveva dato tratto si rivela per tale anche sotto gli altri profili: umano, filosofico, biologico, medico/sanitario.
Di certo, nulla più sarà come prima! Quel che sembrava solo una previsione esagerata prende sempre più consistenza man mano che questi giorni passano in mezzo allo scenario surreale delle nostre città, delle nostre case, delle nostre vite. Ciascuno a suo modo sta cercando di capire quale lezione ha dentro di sé quest’assurda esperienza del coronavirus. E chi si credeva al riparo non lo è più. Chi sapeva di essere privilegiato non lo sarà più. Chi aveva messo da parte qualche sicurezza non l’avrà più. Si rimodulano tutti i pensieri che avevamo. Dalle cose più semplici a quelle più complesse. Dall’idea stessa dello stare assieme al mondo a quella più intima e desolante di questi giorni d’isolamento, di “distanziamento sociale”, come il gergo sanitario coniuga la quarantena di questi giorni. Dovremo ri/orientare un modo di essere e di vedere. Con un compito più difficile di tutti gli altri: poter fare, in questi giorni come nei mesi che verranno, una seppur minima previsione su ciò che il mondo (la sua economia, l’equilibrio tra i diversi Stati e le aree del mondo, l’orizzonte di uno suo sviluppo possibile) potrà essere dopo questa esperienza estrema. Un cambiamento senza precedenti che sta coinvolgendo e coinvolgerà, soprattutto quando l’emergenza sanitaria sarà fronteggiata e finita, individui, Stati, governi, continenti, assetti economici e sociali, opinioni pubbliche, imprese e produzioni, beni e consumi. Davanti a tale accadimento i più accorti osservano lo stesso rigoroso silenzio d’incredulità e sbigottimento che osservano i cittadini dei tanti luoghi del mondo che hanno le strade deserte e silenziose in questi giorni d’emergenza planetaria. Un misto di paura e curiosità, di preoccupazione e timore. Un momento cruciale che ha catapultato generazioni e “resilienze” diverse con un filo, sottile e fragile che le attraversa. Il pensiero che in mezzo a svolte cruciali della storia e del mondo, qualche volta, per pura necessità, nascono nuovi, imprevedibili e più condivisi equilibri. Assomiglia ad una speranza ma è l’unica cosa a cui, in queste ore, possiamo aggrapparci.