Aprile 2020, la Pasqua della passione e della pandemia
di francesco de rosa |
Ho voluto realizzare un breve contributo video (quattro minuti appena) perché attorno alla parola “passione” abbiamo sempre mosso e messo tante cose. La sua stessa radice semantica ci aiuta a farlo. La passione ha almeno tre contesti differenti con i quali, puntualmente, a Pasqua, coloro che hanno fede in Cristo si trovano a riflettere.
Il primo viene proprio da lì. La passione è soprattutto una sofferenza fisica o spirituale. Ed in questo primo senso “sopravvive solo con riferimento al sacrificio di Cristo e a quello dei primi martiri della fede cristiana. Nel secondo, la sofferenza spirituale, il termine “si associa all’idea di una profonda e tormentosa afflizione”. La passione è il tormento, “una bellezza velata e offuscata”. Ma passione è anche il sentimento che ci guida a fare qualcosa, quando lo facciamo con “passione”.
La passione per i cristiani di tutto il mondo è scandita dalle ore di un giovedì santo, del venerdì di passione e della crocifissione che ci porta fino al mattino della domenica di Pasqua quando Cristo vince la morte perché risorge. Non c’è una sola chiesa, altare, sacrestia che non abbia sentito da quando è nato il Cristianesimo l’emozione di queste ore. Così che ci sono posti del mondo dove la processione del venerdì santo è un rito antichissimo custodito gelosamente.
Eppure, questo aprile 2020 sarà ricordato nei libri di storia laica e religiosa come l’anno delle chiese chiuse, delle processioni non fatte, dei riti sospesi o celebrati sul web come in televisione. La televisione, per i cristiani del mondo, si è fatta edicola votiva dal 27 marzo scorso quando Francesco Bergoglio ha pregato solo in mezzo ad una piazza paurosamente vuota a causa della pandemia da covid 19 che ha colpito tutti i paesi del mondo.
Ho tra i ricordi, come gran parte di chi vive e racconta questo tempo, degli scrittori, dei cronisti o semplicemente di chi vive d’Occidente e di retrospettive il via vai silenzioso e luttuoso dei fedeli che andavano davanti ai sepolcri del giovedì santo. Oggi i sepolcri, le processioni, le flagellazioni, le sofferenze che hanno finora rappresentato, come a metafora, quell’antica sofferenza di Chi fu messo in croce, sono altrove. Sono per strade dell’Ecuador povero e morente di coronavirus. Sono negli ospedali di Bergamo, di Milano, di Madrid, di Londra, di New York e di tante altre città del mondo dove questa pandemia sta falcidiando la via quotidiana che avevamo, Quella normalità che non sapevamo preziosa. Così ho voluto realizzare questo breve contributo, moto dolente che vorrebbe raccogliere le sofferenza di tutti coloro che sono morti, che hanno perso cari, che sono rimasti chiusi dentro le loro case e ancora sono lì. Ho voluto accostare le processioni religiose della passione pasquale che avevamo e che abbiamo vissuto fino allo scorso anno, alle processioni, che sono anche laiche del tutto umane, di un’altra passione, quella che stiamo vivendo in questa inedita realtà da pandemia. Perché la sofferenza è la stessa. Perché, come ha scritto Fabrizio Caramagna, “tornavo dal dolore e un bambino mi chiese che cosa ci fosse lì. Gli dissi “è il luogo dove i fiori crescono senza colore e il cielo è un pezzo di vetro che si conficca corpo e nell’anima”. È un contributo che spero vigliate condividere.
L’ho dedicato “alle vittime, agli eroi, a chi dal dolore di questi giorni ha appreso una lezione di vita. A chi è rimasto senza nulla, a chi avrà bisogno di un nuovo lavoro, a chi saprà amare. Forse meglio e più di prima”.