di francesco de rosa
Poi li chiamate folli. Oppure “veggenti”. Magari così “scomodi” da screditarli ovunque. Da dire su di loro le cose peggiori che, per fortuna, sono pochi. Ce ne sono, invece, a iosa di giornalisti “addomesticabili” tali da usarli come megafoni in propagande, campagne elettorali, candidature, iniziative politiche e faziose. Su quelli pochi si spara a sangue esattamente come accadde ad Anna Politkovskaj il 6 ottobre del 2006 che di Putin aveva scritto ciò che poi si sta verificando…
Di giornalisti ne leggi e ascolti o iosa. E con l’avvento dei social media anche chi non ha nessuna idea dei doveri e delle competenze che deve far propri un vero giornalista si dice e si sente un giornalista. Una flotta che cerca privilegi, che vuole visibilità, sicurezza, accanto ad una sparuta minoranza di altri giornalisti, sparsi ovunque nel mondo, che spesso, assai lontano dai riflettori della compiacenza, combatte, ogni giorno, una battaglia per raccontare quel che vede. I giornalisti (veri e pochi) non si siedono mai nei “salotti del potere”. Non fanno anticamera, non si intimidiscono, non cercano compromessi, non si sentono eroi né hanno la volontà di fare i moralisti o di insegnare qualcosa a qualcuno. Non hanno nulla di personale o ideologico tra i motivi che li spingono a scrivere ciò che scrivono. Nessun tema, nessuna crociata personale stile “no vax” dove sai già dove vuole arrivare chi ti racconta quel che ti racconta. Né nessun’altro tema che possa prestarsi alla contrapposizione ideologica dell’antiamericanismo che sta con i russi e vede nei russi ogni ragione per agire come agisce o, al contrario, degli antirussi che stanno sempre assieme agli americani e vedono in loro l’unica salvezza.
La realtà è molto più complessa di quel che si possa credere ed è tale da non poterla racchiudere dentro contrapposizioni ideologiche. La realtà si documenta e non sai mai a quale risultato e consapevolezza potrà portarti. Intanto quando ciò che racconti inizia a dar fastidio a chi legge nel luoghi in cui lo legge scatta così l’operazione di contrasto. Molti sono stati uccisi così. Sembrò “veggenza” quel che avevano raccontato. La vicenda di Anna Politkovskaja, giornalista russa che trovò la morte per la sola “colpa” di raccontare ciò che vedeva torna d’attualità proprio in questi giorni, nel pieno di una guerra assurda d’invasione della Russia di Putin ai danni dell’Ucraina. Anna Politkovskaja fu uccisa il 6 ottobre (il giorno prima del compleanno di Putin) nell’ascensore del palazzo dove abitava a Mosca. Si cercò di farlo sembrare altro ma il mandante era politico ed era un regalo che l’esecutore volle fare a Putin intento a tramare la fine della scomoda e coraggiosa giornalista. Anna Politkovskaja aveva scritto, fino ad allora, diversi libri, tutti scomodi per il potere di Putin. Uno aveva persino il suo nome nel titolo: “La Russia di Putin” del quale vi riporto ora, nelle stesse ore in cui in Russia il potere coercitivo di Putin ha tolto con la forza ogni libertà ai cittadini dissidenti e ai giornalisti (veri e pochi) che raccontano il dissenso, alcuni passaggi che sembrano profezia.
Anna Politkovskaja scriveva nel suo “La Russia di Putin“: «Questo libro parla di un argomento che non è molto in voga in Occidente: parla di Putin senza toni ammirati. A scanso di equivoci, spiego subito perché tale ammirazione (di stampo prettamente occidentale e quanto mai relativa in Russia, dato che è sulla nostra pelle che si sta giocando la partita) faccia qui difetto. Il motivo è semplice: diventato presidente, Putin – figlio del più nefasto tra i servizi segreti del Paese – non ha saputo estirpare il tenente colonnello del KGB che vive in lui, e pertanto insiste nel voler raddrizzare i propri connazionali amanti della libertà. E la soffoca, ogni forma di libertà, come ha sempre fatto nel corso della sua precedente professione.
Questo libro spiega inoltre come noi, che in Russia ci viviamo, non vogliamo che ciò accada. Non vogliamo più essere schiavi, anche se è quanto più aggrada all’Europa e all’America di oggi. Né vogliamo essere granelli di sabbia, polvere sui calzari altolocati – ma pur sempre calzari di tenente colonnello – di Vladimir Putin. Vogliamo essere liberi. Lo pretendiamo. Perché amiamo la libertà tanto quanto voi.
Questo libro, però, non è un’analisi della politica di Putin dal 2000 al 2004. Le analisi politiche le fanno i politologi. Io sono un essere umano tra i tanti, un volto nella folla di Mosca, della Cecenia, di San Pietroburgo o di qualunque altra città della Russia. Ragion per cui il mio è un libro di appunti appassionati a margine della vita come la si vive oggi in Russia. Perché per il momento non riesco a fare un passo indietro e a sezionare quanto raccolto, come è bene che sia se si vuole analizzare un fenomeno. Io vivo la vita, e scrivo di ciò che vedo.
L’esercito del mio paese. E le sue madri
L’esercito da noi è un luogo chiuso. Chiuso come una prigione. Anzi no, è una prigione, solo che la chiamano diversamente. Nell’esercito, come in prigione, nessuno mette piede se le autorità (militari o carcerarie) non vogliono. Di conseguenza la vita nell’esercito è una vita da schiavi.
Vero è che non siamo i soli: qualunque esercito mira alla clausura, alla segretezza, ed è forse per questo che si è autorizzati a parlare dei generali come di un’unica casta internazionale con comportamenti analoghi in ogni angolo del pianeta a prescindere dal capo di Stato che ogni singolo generale serve.
Tuttavia, l’esercito russo ha delle peculiarità tutte sue, o meglio ad averle è il rapporto fra l’esercito e la popolazione civile. In Russia, cioè, manca il benché minimo controllo della società civile sull’operato dei militari. I soldati semplici – lo scalino più basso della gerarchia – non sono nessuno. Al di là dei muri di cemento di una caserma, un ufficiale può fare a un soldato quello che vuole, quello che gli passa per la testa in un determinato momento. Analogamente, quello stesso ufficiale può trattare come più gli piace un collega di grado inferiore».
«È davvero questa, la situazione?» immagino che vi starete chiedendo. E ancora: «Ma no, non può essere davvero così…».
Non è sempre così, no. Ma eventuali eccezioni si devono solo a singoli individui che danno prova di una pur vaga umanità e la dimostrano richiamando all’ordine i propri sottoposti. Solo in questo modo, in forma di singole eccezioni e non di una regola sociale, si può scorgere un barlume di luce in fondo al tunnel. Il sistema in sé è chiuso, ed è un sistema schiavista.
«Ma chi è al governo che fa?» mi chiederete. Il presidente non è anche, ex officio, il Comandante Supremo dell’esercito? È o non è responsabile in prima persona di quanto vi accade?
Per nostra sfortuna, quando si insediano al Cremlino i nostri leader (o presidenti che dir si vogliano) nulla fanno per mettere la parola fine a questo stato di cose, né per promulgare leggi che limitino l’anarchia dell’esercito. Sono più propensi al contrario, e cioè a concedere all’esercito poteri ancora maggiori sui sottoposti. Perché l’esercito osteggia o sostiene un capo di Stato a seconda della compiacenza che egli mostra nei suoi riguardi. Gli unici tentativi di dare un volto umano alle nostre Forze Armate furono fatti all’epoca di El’cin, nell’ambito di un programma che mirava a promuovere le libertà democratiche. Ma non durò: in Russia il potere in sé è cosa assai più preziosa delle vite dei soldati. Dunque anche El’cin dovette alzare bandiera bianca, cedendo alle pressioni di un indignato Stato Maggiore.
Putin non ci ha mai provato. Dirò di più: per definizione un presidente che sia un ex ufficiale è destinato a non provarci mai. Quando si delineò all’orizzonte politico russo in veste di probabile capo di Stato più che di impopolare direttore dell’universalmente inviso ex KGB (ora FSB), Putin esordì affermando che l’esercito screditato da El’cin (e intendeva con ciò gli esangui tentativi di porre un freno all’anarchia interna) sarebbe rinato a nuova vita. Quel che ci voleva per una rinascita completa e definitiva era una guerra, la seconda guerra cecena… La cronaca successiva degli eventi nel Caucaso Settentrionale è la conseguenza di questa premessa. Da quando è scoppiata la seconda guerra cecena, l’esercito ha avuto carta bianca, e il risultato più evidente è che alle elezioni presidenziali del 2000 ha votato all’unanimità per Putin.
Né c’è alcun dubbio che così abbia fatto anche nel 2004.
La guerra in atto è assai utile e redditizia per l’esercito, fonte di promozioni lampo e di un gran numero di medaglie, fucina di carriere fulminee per i giovani generali ‘combattenti’ che gettano le basi per future scalate politiche e finiscono catapultati nell’élite di Stato. Putin, intanto, martella il Paese con i suoi slogan: la rinascita dell’esercito è un dato di fatto e lui solo, Putin, ne è l’artefice perché ha rimesso in piedi un esercito umiliato (da El’cin) e offeso (nella prima guerra cecena).
Le storie che seguono mostreranno di quale ‘sostegno’ si sia trattato. A voi trarre le conclusioni, magari cercando di mettervi nei nostri panni. Vorreste vivere in un Paese in cui le tasse che pagate vanno a foraggiare una simile istituzione? Come vi sentireste con un figlio diciottenne precettato quale «materiale umano», come lo si definisce qui da noi? Che ne dite di un esercito da cui i soldati disertano in massa ogni settimana (e solo per avere salva la vita), talvolta in intere squadre o compagnie? Che cosa pensereste di Forze Armate che in un solo anno, il 2002, hanno perso più di cinquecento uomini – un intero battaglione – non in guerra, ma per le percosse subite? Un esercito in cui gli ufficiali rubano di tutto: ai soldati i dieci rubli mandati dai genitori, e allo Stato intere colonne di carri armati? In cui gli ufficiali odiano e picchiano a loro discrezione i sottufficiali? In cui questi ultimi sfogano sui soldati semplici l’odio che provano per i superiori? In cui ufficiali e sottufficiali sono accomunati dall’odio per le madri dei soldati, colpevoli di protestare occasionalmente – vivono nel terrore e lo fanno solo quando le circostanze di una morte sono troppo scandalose – e di chiedere giustizia?…»