Il mio incontro con Francesco Bergoglio, il papa venuto dalla fine del mondo
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Dieci anni fa, era il 13 marzo del 2013, lo vidi per la prima volta affacciarsi dal balcone della Basilica di San Pietro. Come molti altri non sapevo, prima di allora, che in Argentina ci fosse un gesuita di nome Francesco Bergoglio. Che fosse “rivoluzionario”. Che viaggiasse su pullman pubblici in piedi anche quando erano affollati per andare da un capo all’altra di Buenos Aires. Poi quel suo “buonasera” e la sensazione che qualcosa davvero poteva cambiare attorno alla figura di un Papa. Il 21 gennaio di quest’anno sono arrivato a San Pietro sapendo già che a Francesco, come amo chiamare il Papa “venuto dalla fine del mondo” (come lui stesso disse di sé il giorno dell’elezione), avrei dato, esattamente nelle sue mani, uno dei miei libri/inchiesta più cari scritti, nel 1998, sul tema della fede. Così è iniziato un legame vissuto da vicino tutte le volte che si può. Un legame che si compone di stima e ammirazione. Che rivela a me stesso, viaggiatore errante di un mondo in grande trasformazione, l’uomo privato Francesco prima ancora di quel Papa pubblico che in tanti ammirano…
Su Francesco Bergoglio, in questi dieci anni di suo pontificato, si sono scritti fiumi di parole. Tante di esse del tutto ispirate al bene da chi lo ha conosciuto, in questo tempo, più da vicino e ne ha confermato lo spessore umano e culturale, la fede fervida, l’umiltà, quel modo suo di porsi agli altri. Non sono, tuttavia, mancate nemmeno parole assai sconce, del tutto offensive e senza ritegno alcuno con le quali giornalisti, osservatori, filosofi da strapazzo, opinionisti si sono esercitati a dire ciò che considero delle pure amenità. Degli uni e degli altri ho letto e conosciuto da vicino molte cose senza seguire nessuna di esse. Seguivo ciò che non leggevo. Ciò che sento a pelle, ciò che ispira un nuovo orizzonte di fede e vita. Senza filtri e senza letture mediate.
Francesco non si mette sui piedistalli. Non promette senza mantenere. Non fa colazione senza invitare gli altri che stanno attorno alla sua stessa mensa. Francesco non vuole barriere tra sé e gli altri. E non sostiene né propone una Chiesa della forma. Nemmeno il Magistero, in questi dieci anni di suo pontificato, è mai stato uno scudo, una cattedra di dogmi, una dottrina distante, un metro di misura di persone e di cose. “Chi sono io per giudicare chi è diverso da me?” Un’esperienza del tutto nuova che fu chiarissima sin da quando scelse lo stesso nome che porto anch’io da quando nacqui. Quel nome di cui divenni fiero negli anni dell’adolescenza vissuti in tante occasioni nella città di Assisi che mi fu cara più di molti altri luoghi. Francesco è una ventata di bellezza e di libertà dentro una Chiesa che sembra sia diventato il luogo di mille impiegati, di gente che mette distanze, che vive il sacerdozio, l’azione pastorale come fosse un mestiere come gli altri e non giammai una testimonianza. A cosa servono, in fondo, le tonache, gli abiti talari, il saio dei monaci cristiani, i paramenti sacri se non a suggellare il valore della testimonianza umana che prima di ogni culto deve venire dai comportamenti di chi quelle vesti indossa?
Francesco vuole cambiare la Chiesa prima che la Chiesa cambi Francesco con i suoi orpelli, con la sua politica, con la sequela di una liturgia che rischia di sentire ancora quel fascino misto a comodità e a potere temporale di cui la Chiesa si è nutrita per secoli. Francesco vuole scuotere i fedeli del mondo per chiamarli a vita nuova, per andare in mezzo ai bisogni della gente, per essere nuove testimonianze, per evitare che il prete, il vescovo, il cardinale diventino mestieranti di professione. Francesco resiste agli affanni dell’età senile, alle voci d’infamia che nei palazzi vaticani hanno l’eco ed il bersaglio su di lui. Francesco è fragile ma resiste persino alla solitudine di tutti coloro che vogliono davvero cambiare un vecchio e stanco modo di fare. Tutto questo c’è nel mio legame con il Papa argentino. Persino quella bellezza dei vent’anni che sentivo a pelle e che “rischiò” di farsi vocazione di vita. E che ancora oggi bussa alle porte del mio cuore e del mistero che mistero rimane in ogni vita. Accade sempre così. Che quando senti affinità con qualcuno (un modo di fare, una storia, una trama, una missione) la differenza degli anni scompare. Diventi coetaneo di un bambino come di un vegliardo 86 enne come Francesco Bergoglio. Coetaneo a tal punto che senti infinite vicinanze. Come se quel volto, quel modo di fare, quella missione di vita ti appartenessero da sempre. Fossero comuni a te. Fossero come te: sorriso, parola, stanchezza e forza, resistenza e resilienza.
“Bellezza tanto antica e tanto nuova tardi ti ho amato! Tu eri lì, dentro di me. Ma io ti cercavo lontano da me, nelle creature che non esisterebbero affatto se non esistessero in te“. Abbiamo tutti una luce dentro che fa fatica a farsi percepire. Francesco mi ricorda le parole di Agostino, di Ignazio, dei mistici antichi e le omelie di altri gesuiti. Intanto, il papa argentino, come se nulla fosse, ha fatto entrare in Vaticano il nome e la storia del poverello di Assisi. Di colui che diede tutto quello che aveva per scegliere la libertà di chi non ha niente ma ha tutto. Di colui che voleva una Chiesa povera e tra la gente, che vivesse di carità e d’amore per il creato ed i fratelli, per il sole e le stelle, per sorella morte e tutte le creature. Nelle prossime settimane medito di incontrarlo nuovamente per nutrire di forza e d’ispirazione le trame della vita. Senza orpelli, senza forme, senza piedistalli, senza reverenze. Come piace a me. Come piace a lui. Per dialogare, magari, attorno alle pagine di “Un Dio per il Duemila” il mio libro/inchiesta che gli ho donato lo scorso 21 gennaio e che ha voluto custodire con cura. Quel libro che resta attuale per i temi che ha e le voci che ha dentro scovate in giro per l’Italia quando volli scriverlo. Nel frattempo, lunga vita a Francesco prima che la Chiesa perdi l’anelito di vita e di missione per la quale venne al mondo.
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