Chi l’avrebbe mai detto che, ad un certo punto della mia vita, mi sarei ricordato, pensando a profezia e veggenza, di quella parte di Canto che apre la Commedia umana e divina di Dante Alighieri così come è pervenuta a centinaia di (ex)giovani studenti come me? E chi poteva immaginare che crescendo avrei avuto molte più domande che risposte: quelle tali per sempre di maestra Filosofia ma anche quelle, molto più umane e spicciole, che posso farmi e fare per mestiere, sostituite da tempo dai miei simili con le certezze granitiche che i miei simili (bontà loro) hanno già da molti anni. Io mi domando, per esempio, perché, accanto a quei pochissimi segni di speranza che mi confortano l’anima, vedo e raccolgo oggi decine di indizi, di storie e vicende nelle quali gli umani mentono, parlano d’amore ma seminano odio, esaltano la democrazia ma costruiscono oligarchie, si raccolgono in gruppi di privilegi e di privilegiati, parlano dei “dimenticati” ma in realtà cercano consensi solo per loro stessi spacciando quei consensi per conquiste dell’umanità. Io mi chiedo perché la saggezza (che è fantasia, creatività, fiducia, inventiva) della vita risieda nei bambini e come mai si perda quando i bambini diventano adulti? E perché mai chi non si vanta, non mette la sua vita davvero in vetrina, non cerca consensi, non ama i privilegi, non eredita vantaggi è destinato a vivere di stenti e di precarietà, a fare notti insonni, a guardare la follia del mondo e dei propri simili senza trovarne mai alcun rimedio? Anzi. Si scopre che si può vivere come se fossi figlio di un dio minore anche quando cerchi da sempre l’unico Dio che dà la vita: Dio dell’amore, dei poveri e dei bisognosi, della pace, della vera umiltà e della perfetta letizia. Ma la follia, l’incoerenza, l’ipocrisia, le bugie, le contraddizioni del mondo e dei miei simili mi sovrastano, mi isolano e rendono invano ogni sforzo di chi vuole davvero guardare oltre la propria natura umana. Ci sono in mezzo, mi sono accanto, ci sono dentro! Il ciarpame, l’ipocrisia, la violenza, l’insensatezza, l’avidità del mondo, anche quando li rifuggo e li vedo dilagare nei miei simili, come negli accadimenti della storia che vive con me, rischiano di contagiarmi dacché ho la stessa natura di tutti i miei simili. Non c’è un solo giorno nel quale non sia impegnato a difendermi da essa ma la mia difesa è uno spazio nascosto, una enclave, un luogo d’umiltà, di sofferenza, di coerenza e di ricerca che vive solo dentro di me e del quale non posso mai farne un vanto. Non avrei immaginato, trentacinque anni fa, che quei versi, allora letti, per la prima volta, del primo Canto dell’Inferno di Dante Alighieri poteva farsi, oggi, profezia e veggenza…
Non so, alla fine, chi mi salverà. Dalla follia, dall’avidità, dall’ipocrisia di questo mondo
“Nel mezzo del cammin di nostra vita mi ritrovai per una selva oscura ché la diritta via era smarrita. Ahi quanto a dir qual era è cosa dura esta selva selvaggia e aspra e forte che nel pensier rinova la paura! Tant’è amara che poco è più morte; ma per trattar del ben ch’i’ vi trovai, dirò de l’altre cose ch’i’ v’ho scorte. Io non so ben ridir com’i’ v’intrai, tant’era pien di sonno a quel punto che la verace via abbandonai. Ma poi ch’i’ fui al piè d’un colle giunto, là dove terminava quella valle che m’avea di paura il cor compunto, guardai in alto, e vidi le sue spalle vestite già de’ raggi del pianeta che mena dritto altrui per ogne calle. Allor fu la paura un poco queta che nel lago del cor m’era durata la notte ch’i’ passai con tanta pieta. E come quei che con lena affannata uscito fuor del pelago a la riva si volge a l’acqua perigliosa e guata, così l’animo mio, ch’ancor fuggiva, si volse a retro a rimirar lo passo che non lasciò già mai persona viva. Poi ch’èi posato un poco il corpo lasso, ripresi via per la piaggia diserta, sì che ’l piè fermo sempre era ’l più basso. Ed ecco, quasi al cominciar de l’erta, una lonza leggera e presta molto, che di pel macolato era coverta; e non mi si partia dinanzi al volto, anzi ’mpediva tanto il mio cammino, ch’i’ fui per ritornar più volte vòlto. Temp’era dal principio del mattino, e ’l sol montava ’n sù con quelle stelle ch’eran con lui quando l’amor divino mosse di prima quelle cose belle; sì ch’a bene sperar m’era cagione di quella fiera a la gaetta pelle l’ora del tempo e la dolce stagione; ma non sì che paura non mi desse la vista che m’apparve d’un leone. Questi parea che contra me venisse con la test’alta e con rabbiosa fame, sì che parea che l’aere ne tremesse. Ed una lupa, che di tutte brame sembiava carca ne la sua magrezza, e molte genti fé già viver grame, questa mi porse tanto di gravezza con la paura ch’uscia di sua vista, ch’io perdei la speranza de l’altezza. E qual è quei che volontieri acquista, e giugne ’l tempo che perder lo face, che ’n tutt’i suoi pensier piange e s’attrista; tal mi fece la bestia sanza pace, che, venendomi ’ncontro, a poco a poco mi ripigneva là dove ’l sol tace. Mentre ch’i’ rovinava in basso loco, dinanzi a li occhi mi si fu offerto chi per lungo silenzio parea fioco. Quando vidi costui nel gran diserto, «Miserere di me», gridai a lui, «qual che tu sii, od ombra od omo certo!»”.
Non so dire chi potrà salvarmi né quali altri anfratti o domande rimaste senza risposte riuscirò ancora a raccontare. La mia “resistenza” mantiene il muro possente di ogni più banale rassegnazione. Impedisco alla notte di prendere spazi, alle ombre di sostituire tutte le luci che ho raccolto in questi anni e che raccolgo ancora. Con ostinazione, con tenacia, con fermezza. Auguro a me stesso di “stare al mondo e nella vita” confidando e fidandomi di tutte quelle cose a cui spetta il dono di cambiare, d’improvviso, gli orizzonti. Non si vedono le trame vere di ciò che siamo e nemmeno di ciò che accade ma qualcosa, oltre “il mezzo del cammin di nostra vita” vuole dirmi che crescono in mezzo ai sassi alcuni fiori. Ho lasciato tutte le certezze umane che la vita deve dare. Ho lasciato in un angolo il dolore di ogni perdita. Ho lasciato tutte le strade che potevano darmi certezze. Ho lasciato un lavoro sicuro per non piegare la schiena davanti a nulla e a nessuno che non avessero il sapore della legalità, della giustizia, della verità, della mia lealtà. Ho lasciato sapendo di pagare quel prezzo che sto pagando ora. Ho lasciato, da anni, il fascino di ogni privilegio, di un’appartenenza che mi avrebbe garantito molte cose impedendo così che da quello che so fare avrei potuto trarre molti vantaggi. Si chiama ostinazione, eccesso di zelo, bisogno di coerenza estrema. Oppure lucida ed estrema conseguenza di libertà e rigore. Non credo di aver saputo mai millantare alcunché. Non nego nessuno dei difetti che la nostra (la mia) condizione umana può avere. Anzi. Ne aggiungo altri e a quelli che già gli altri vedono aggiungo anche quelli che non vedo io o che, per umana inclinazione, tollero. Persino, amo.
Ora però cerco qualcuno che potrebbe salvarmi. Nel mezzo di tanta spavalderia inizio a rimproverarmi qualcosa, a cercare qualche timido riparo, a darmi qualche punto fermo in mezzo al mare della vita che sto attraversando. Ci vorrebbe qualcuno che potrebbe salvarmi: una condizione, un evento, un Dio, il bambino che conoscevo quand’ero bambino. O magari mi salva qualcuno dei miei simili. Anche uno solo che possa avere la fortuna di incontrare “nel mezzo del cammin di nostra vita” da cui poter capire che non si è soli se si va per questa strada, se si è così come sono in mezzo alla storia del mondo.